‘Il prodigio’ è il secondo film con Florence Pugh di quest’anno. Quello bello | Rolling Stone Italia
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‘Il prodigio’ è il secondo film con Florence Pugh di quest’anno. Quello bello

Dopo il chiacchieratissimo ‘Don’t Worry Darling’, la prodigiosa (per davvero) attrice inglese torna con una storia che è il racconto di molte storie. Gotica, misteriosa, meta-cinematografica. Merito anche dell’abilissima mano del cileno Sebastián Lelio

Florence Pugh nel film ‘Il prodigio’ di Sebastián Lelio

Foto: Netflix

La primissima cosa che vediamo nel Prodigio, dramma in costume ambientato nell’Irlanda del XIX secolo (disponibile su Netflix), non è l’inconfondibile campagna battuta dal vento. E nemmeno le fangose strade di Dublino, o le taverne illuminate da lampade a olio in cui uomini barbuti bestemmiano bevendo birra, e neanche un cottage sperduto in cui può essere (o non essere) avvenuto un miracolo.

No, la prima cosa che il film ci mostra è l’interno di un teatro di posa. Una voce narrante ci dice che siamo nel 1862, e che ci troviamo su una nave che dall’Inghilterra sta viaggiando verso Emerald Isle. La cinepresa a poco a poco smette di mostrare tutta l’attrezzatura tecnica che circonda il set e si avvicina a colpi di zoom su quella che sembra essere la terza classe di una vecchia imbarcazione. Quando la macchina da presa si ferma, riconosciamo Florence Pugh, seduta a un tavolo di legno. I personaggi credono alle storie che raccontano a loro stessi, dice la voce narrante, mentre vediamo Miss Flo mangiare da una scodella. Dunque perché non crediamo alle storie che i registi ci raccontano? Si capisce da subito che siamo nel pieno di un’illusione.

Dopo questo incipit inusuale, Il prodigio diventa ben presto un film in costume piuttosto tradizionale. La seconda cosa che vediamo è Lib Wright, cioè l’infermiera interpretata da Pugh, mentre cammina nel porto (evidentemente ricostruito in studio) dove la nave ha attraccato. Ma il guanto di sfida ormai è stato gettato, perciò ci ritroveremo spesso a pensare al perché di quell’inizio così “meta”. Il regista Sebastián Lelio (premiato con l’Oscar per Una donna fantastica) e la co-sceneggiatrice Alice Birch sanno esattamente cosa stanno facendo, nel porre davanti a tutto questa sorta di sipario teatrale. I cliché della narrazione gotica non sono la cura, ma lo zucchero che serve a mandar giù la medicina (pardon: il messaggio).

Siete ancora con noi? Bene, andiamo avanti. Lib è stata chiamata da Londra per esaminare una ragazzina al centro di uno strano evento. Dopo il suo undicesimo compleanno, Anna O’Donnell (Kíla Lord Cassidy) ha smesso di mangiare. È da quattro mesi che rifiuta di ingerire cibo, ma sembra del tutto in salute: dice che a nutrirla è la “manna dal Cielo”. Alcuni pensano che la ragazzina sia stata toccata dalla mano di Dio, il che l’ha resa una sorta di attrazione turistica nonché la materia d’interesse di un giornalista (il Tom Burke di The Souvenir) giunto come inviato del suo giornale. Un comitato di medici locali ha ingaggiato l’infermiera e anche una suora, per darsi il turno nel vegliare sulla ragazza. Le due non possono parlarsi. Devono darsi semplicemente il cambio e, alla fine del periodo stabilito, fornire la loro spiegazione di questo strano evento.

Più Wright passa il tempo con quella religiosissima ragazza, più quello che sta accadendo sembra non avere nulla a che fare né con le anomalie scientifiche né con le benedizioni divine: è tutto molto più semplice di quanto si possa immaginare. Potrebbe esserci dietro un segreto, simile a quello che nasconde la stessa infermiera: il suo rito di inalare morfina per poi pungersi un dito con un ago mentre culla un paio di scarpine da neonato sembra suggerirci che anche lei cela una ferita. Pugh è unanimemente considerata una delle migliori attrici (e attori) su piazza, anche quando il gossip (leggi: il caso Don’t Worry Darling) sembra oscurare i progetti di cui fa parte. Ma è sempre stata perfetta in: a) trovare l’equilibrio tra il mostrare quello che c’è sotto la superficie dei suoi personaggi e insieme esplodere in grandi scene madri, così da farti credere che tu stia assistendo a due performance in una sola volta; b) stare benissimo dentro i drammi in costume. Chiunque abbia scoperto Pugh in Piccole donne di Greta Gerwig– o, per andare più un po’ più indietro, grazie alla sua straordinaria prova nel bellissimo Lady Macbeth di William Oldroyd (2016) – può testimoniare che ha un modo tutto suo di incarnare il passato.

Il prodigio fa affidamento su tutto questo, mettendo la sua star dentro abiti e cuffiette d’epoca e inquadrandola sullo sfondo di ampie distese verdi o nello squallore dickensiano degli interni, con la testa e la schiena bassa, in un modo che sembra suggerire una rabbia che arriva di un altro secolo. Ma è il modo in cui Pugh contemporaneamente interpreta e “abita” il personaggio, rendendolo al tempo stesso freddamente rigoroso e ferocemente emotivo, a sostenere gli obiettivi che si pone il film. Lelio e il suo team ci regalano un film che sembra inserito nella tradizione del cinema britannico. Ed è davvero un film sulle storie, quelle che raccontiamo a noi stessi per vivere. Anzi, non solo vivere: per sopravvivere, per spiegare a noi stessi ciò che ci appare misterioso, se non addirittura mostruoso.

Tom Burke, Florence Pugh e Kíla Lord Cassidy in una scena del film. Foto: Netflix

L’idea che bisogna inventare delle storie per dare un senso al mondo è ciò su cui Il prodigio vuole farci riflettere, e quell’incipit brechtiano – e, spoiler, anche il finale – in cui viene mostrato il dietro le quinte di quello che vediamo è solo l’esempio più diretto. Ogni personaggio vive gli eventi attraverso una storia che gli viene narrata o che racconta lui stesso: come il giornalista interpretato da Burke, che per vivere racconta storie (a volte vere, altre verosimili). E non è un caso che, per conquistare la fiducia di Anna, proprio lui le regali un taumatropio, una sorta di moneta che, se fatta girare in fretta su sé stessa, crea un’immagine in movimento – una specie di cinema primitivo, che poi sarebbe diventato la maggiore forma di narrazione dell’inizio del ’900.

Tutto questo vi suona come puro esercizio intellettuale? Non avete tutti i torti, se preferite i racconti gotici tradizionali rispetto a questa operazione così “meta”. Ma, grazie principalmente a Pugh, questo tentativo semi-sperimentale da parte di Lelio di rinverdire il melodramma classico non sembra mai costruito a tavolino. Pugh sa che le storie hanno bisogno di una protagonista da osservare e da seguire, e ce ne regala una meravigliosa: scontrosa, imbronciata, sensibile, addolorata, amorevole, materna. E quando tocca a lei raccontare la storia che ha alle spalle, lo fa nella maniera più toccante possibile. Il prodigio è un film che inizia e finisce con una strizzatina d’occhio. Ma ciò non vuol dire che, da quell’occhio, non possa sgorgare anche una lacrima di commozione.

Da Rolling Stone USA