"Post Pop Depression", un fiore nel deserto | Rolling Stone Italia
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Iggy Pop – Post Pop Depression

Leggi la recensione del disco di Iggy Pop e Josh Homme su RollingStone.it

Dalle viscere della città al deserto: Iggy Pop ha vissuto a Detroit e Berlino, ha creato il mito della New York anni ’70, ma è andato nel Mojave con Josh Homme (che potrebbe essere suo figlio) per il primo momento di riflessione della sua vita e scoprire la “depressione post pop”. Qualunque cosa voglia dire. Perché in questo suo glorioso 17esimo disco (in uscita il 18 marzo) non c’è niente di deprimente, solo l’ennesima sfacciata dichiarazione di intenti dell’Iguana, che con la sua faccia distorta rimette a posto le cose nel rock&roll.La depressione post pop è un suono semplice e radicale, con omaggi a David Bowie (Gardenia e Sunday sembrano uscite da Station to Station), celebrazioni dell’oscurità (German Days, Paraguay) e scariche di un’energia inquietante che Iggy a 68 anni sembra tirare fuori da una riserva inesauribile. L’incontro intergenerazionale con Homme funziona: il gigante dei QOTSA usa l’isolamento del deserto per fare piazza pulita intorno alla presenza magnifica di Iggy e gli costruisce intorno una macchina per sfornare classici con la chitarra essenziale di Dean Fertita e la batteria di Matt Helders degli Arctic Monkeys. «Non ho altro che il mio nome», dice Iggy alla fine di American Valhalla, e suona più che mai come un monumento che ha trovato il modo per essere ancora attuale.

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di marzo. Potete leggere l'edizione digitale della rivista, basta cliccare sulle icone che trovi qui sotto.
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Dalle viscere della città al deserto: Iggy Pop ha vissuto a Detroit e Berlino, ha creato il mito della New York anni ’70, ma è andato nel Mojave con Josh Homme (che potrebbe essere suo figlio) per il primo momento di riflessione della sua vita e scoprire la “depressione post pop”. Qualunque cosa voglia dire. Perché in questo suo glorioso 17esimo disco (in uscita il 18 marzo) non c’è niente di deprimente, solo l’ennesima sfacciata dichiarazione di intenti dell’Iguana, che con la sua faccia distorta rimette a posto le cose nel rock&roll.

La depressione post pop è un suono semplice e radicale, con omaggi a David Bowie (Gardenia e Sunday sembrano uscite da Station to Station), celebrazioni dell’oscurità (German Days, Paraguay) e scariche di un’energia inquietante che Iggy a 68 anni sembra tirare fuori da una riserva inesauribile. L’incontro intergenerazionale con Homme funziona: il gigante dei QOTSA usa l’isolamento del deserto per fare piazza pulita intorno alla presenza magnifica di Iggy e gli costruisce intorno una macchina per sfornare classici con la chitarra essenziale di Dean Fertita e la batteria di Matt Helders degli Arctic Monkeys. «Non ho altro che il mio nome», dice Iggy alla fine di American Valhalla, e suona più che mai come un monumento che ha trovato il modo per essere ancora attuale.

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