Ian Brown può fare tutto quello che vuole, purtroppo | Rolling Stone Italia
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Ian Brown può fare tutto quello che vuole, purtroppo

Dopo aver provato in tutti i modi a far uscire qualcosa in gruppo con gli Stone Roses, Brown ha deciso di costruire 'Ripples' pezzo per pezzo, tutto da solo. Il risultato? La copia sbiadita di una copia sbiadita

Foto Getty

«It’s not for glory, nor for riches, nor the honors that I sing, but to sing a song of freedom, all the joy I long to bring» canta King Monkey nella title-track del suo nuovo disco Ripples, il settimo da solista, che arriva a dieci anni dall’ultimo My way. Diciamo che noi vogliamo credergli, che non si tratta di gloria o soldi, anche perché la gloria è ormai lontana e di soldi speriamo non ne abbia bisogno. Vogliamo credergli anche perché dopo averci provato in tutti i modi a far uscire qualcosa in gruppo con gli Stone Roses, Ian Brown ha deciso di costruirsi questo disco praticamente pezzo per pezzo tutto da solo, dai video alla produzione, dalla scrittura alle incisioni, suona quasi tutto e dove non arriva lui ci arrivano i figli. Questa in un certo senso è libertà, no? Arrivarci a cinquantasei anni così.

Partendo dal presupposto che per una serie infinita di motivi, che non c’è bisogno di spiegare, Ian Brown può fare (quasi) tutto quello che vuole, bisogna chiedersi – soprattutto se non si tratta di soldi, continuiamo a credergli eh – quanto abbia senso uscire con dieci brani (neanche, visto che due sono cover) che sono la copia sbiadita della copia sbiadita della copia sbiadita di ciò per cui si è fatto la storia, ormai trent’anni fa. I fan storici degli Stone Roses non troveranno nulla di nuovo in Ripples, se non questo doloroso promemoria: i bei tempi sono andati e non torneranno mai più. I neofiti invece è proprio meglio che stiano alla larga da questa specie di sussidiario in cui sommariamente appaiono citazioni comandate di funk, di reggae in chiave britrock e partano da un decennio in cui i capelli del re indiscusso della scena di Madchester non erano corti e brizzolati, ma lunghi e vigorosi, come quelli che si addicono a uno che ha ispirato l’80% di quello che è successo in Gran Bretagna, sia negli anni Novanta che a inizio millennio, in termini di chitarre e di acconciature.

La traccia di apertura si intitola First world problems ed è subito chiaro che Ian non abbia messo a fuoco quali siano questi problemi urgenti: abbiamo assolutamente bisogno di nuove rockstar, non di vecchie, altrimenti tutto è destinato a scomparire.

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