I mille personaggi di Bruce Springsteen | Rolling Stone Italia
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I mille personaggi di Bruce Springsteen

Il nuovo album "Western Stars" lascia l'ascoltatore da solo con i suoi pensieri, mentre sullo sfondo scorrono le storie di tutti i protagonisti creati dalla sua mente sublime. L'ennesimo colpo messo a segno dal Boss

Quando nella sua autobiografia Bruce Springsteen parla del deserto si riferisce non solo al luogo interiore in cui da sempre cercato la sua ispirazione di cantautore, ma anche all’immenso spazio che separava il suo mondo, le “polverose strade lungo la spiaggia” del Jersey Shore e la città dimenticata di Asbury Park in cui i binari della ferrovia dividevano la povertà dai bianchi da quella dei neri, dal sogno americano.

Un luogo immaginario dove ambientare sogni e speranze in cui ha avuto il coraggio di spingersi con la chitarra in mano e una radio sempre sintonizzata sulla tradizione musicale americana, per provare a raggiungere la Terra Promessa dopo aver visto fallire molti altri, compreso suo padre Douglas.

Per questo Springsteen, scrittore autodidatta che ha imparato a narrare per immagini guardando i film (o solo le locandine, come ha raccontato nello spettacolo Springsteen on Broadway a proposito di Thunder Road: “C’era questo film con Robert Mitchum sui produttori clandestini di whisky del Kentucky. Ho visto solo il poster all’entrata del cinema”) ha deciso di ambientare nel deserto le storie e i personaggi del suo diciannovesimo album Western Stars.

Tredici tracce cinematografiche registrate nello studio che ha costruito nel suo ranch in New Jersey, sostenute da arrangiamenti orchestrali eleganti e maestosi e riempite di fiati, pedal steel, farfisa, Moog, violini, campanelli e un’infinità di altri strumenti (suonati tra gli altri da Charlie Giordano, Soozie Tyrell, Jon Brion e David Sancious, il vecchio amico che viveva nella E Street di Asbury Park che ha dato il nome alla sua band) per immergere in una atmosfera da western la sua voce, potente e vicina grazie alla produzione impeccabile di Ron Aniello. Un mondo nuovo, diverso dalla trascendenza rock e dall’abbraccio trascinante dei dischi con la E Street Band e dalla desolazione emotiva e dall’urgenza dei suoi album solisti acustici (da Nebraska a The Ghost of Tom Joad a Devils & Dust) in cui Bruce entra come se fosse lì da sempre per costruire il suo racconto.

Western Stars è un disco descrittivo, in cui la lunga protesta contro il tradimento dell’idea più pura e autentica dell’America che ha caratterizzato tutta la sua carriera di cantautore, se c’è, è silenziosa, immobile, e per questo ancora più solenne.

Bruce identifica la sua America come viaggio, strada, paesaggi che scorrono dal finestrino, comunità che si radunano e individui irrimediabilmente solitari che si isolano, agganciandosi subito all’immaginario che gli serve per raccontare storie personali che diventano collettive con i primi due pezzi, Hitch Hikin (“Faccio l’autostop tutto il giorno / Con me ho quello che riesco a portarmi dietro e la mia canzone / Sono una pietra rotolante che va avanti / Raggiungimi oggi perché domani non ci sarò più”) e The Wayfarer (“Quando tutti dormono e le campane di mezzanotte suonano / Le ruote della mia auto sibilano sull’autostrada, girano senza mai fermarsi”).

Springsteen ha il talento (e il tormento) dello scrittore nell’immaginare le vite degli altri per dare un senso alla propria. Lo faceva nel 1980 in The River, quando nonostante il successo cercava di capire le ragioni sociali che avevano creato il deserto emotivo in cui era cresciuto ed era ancora un invasato del rock senza una casa, e lo fa adesso, a 69 anni dopo aver esorcizzato il passato nella maratona del suo lungo show a Broadway, usando la precisione narrativa e la potenza espressiva che il tempo e l’esperienza gli hanno donato.

In ogni canzone di Western Stars c’è un personaggio perfettamente messo a fuoco, trasformato in icona da una musica che è dolente quando racconta la sconfitta, sublime quando accompagna un’improbabile redenzione, melodica quando si aprono i grandi spazi: lo stuntman senza gloria di Drive Fast (“Ho un pezzo di acciaio nella gamba / Ma mi fa camminare verso casa”), l’attore caduto in disgrazia di Western Stars che una volta è stato ucciso da John Wayne (“Era verso la fine del film / Quell’unica scena mi ha fatto guadagnare mille drink / Versami da bere, amico, e te la racconterò”), il cantante che non ha sfondato e ha perso la donna che ama di Somewhere North of Nashville (in cui Bruce firma una strofa epocale: “Ho pagato un prezzo alto per l’affare che ho provato a chiudere / Ho scambiato te per questa canzone”), ma anche il lavoratore di Tucson Train che aspetta alla stazione la sua donna che arriva con il treno delle cinque e un quarto solo per mostrarle “Che un uomo può cambiare”.

Il viaggio finisce dove deve finire, con l’elogio della solitudine e dell’oscurità che è all’origine della sua stessa creatività di Hello Sunshine (“Sai che ho sempre amato le città dimenticate / Le strade vuote, nessuno in giro / Ti innamori della solitudine, è così che va a finire”) e la storia potentissima di un motel (Moonlight Motel) in cui chiunque può sparire per sempre dopo un brindisi di whisky nel parcheggio.

In ogni disco importante, alla fine Bruce Springsteen lascia l’ascoltatore da solo con i suoi pensieri. In Western Stars lo fa con uno dei “magic trick” (così ha definito la sua arte nel suo show a Broadway) che lo hanno reso grande. Mentre scorrono le storie dei protagonisti, lui cambia la scena e comincia a cantare di isolamento, ricerca della verità, autenticità e bugie (nella bellissima melodia circolare di Stones che ricorda le strofe ipnotiche di Dylan), di amori che finiscono da qualche parte a nord di Nashville e altri che inizieranno solo quando l’estate se ne sarà andata in una città di confine chiamata Sundown, e non si sa più se sta parlando dello stuntman, dell’attore fallito, dell’uomo che si è esiliato da tutti e passa la vita a rincorrere cavalli selvaggi di Chasin Wild Horses o di Joe che suona il blues e Mary che serve da bere per tutti quelli che vanno a scrollarsi di dosso una dura settimana di lavoro allo Sleepy Joe’s Cafe.

Potrebbe essere chiunque, perché è così che Bruce scrive. I suoi personaggi sono rappresentazioni della sua personalità, simboli, icone americane, a volte pure immagini narrative. Ma in fondo siamo anche tutti noi.

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