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‘Hustle’: ci voleva Adam Sandler per fare un film sul basket che fosse più di un film sul basket

Il comedian che ha saputo costruirsi un ruolo di primo piano anche al di là della commedia torna in questo riuscito dramma a sfondo NBA. In cui usa la lezione imparata dal capolavoro ‘Diamanti grezzi’ per regalare una parabola sportiva classica e sincera
3 / 5

Adam Sandler sta forse ufficialmente entrando nel suo Periodo Blu. Certo, il Santo Patrono dell’Abbie-Doobie recita ancora nelle commedie ultra-popolari a volte riuscite a volte meno che l’hanno consacrato (questa, che pare lontanissima, è uscita solo a fine 2020). Sono i film che hanno garantito a Sandler un contratto a nove cifre con Netflix, e non siamo di certo qui per criticarli: siamo ancora pronti a morire per Billy Madison. Nessuno vuole far fuori la gallina dalle uova d’oro. Ma quando guardi indietro nella sua carriera e ti soffermi sui detour più “seri”, capisci quanto questo divo 55enne sia stato in grado di costruirsi un solido profilo al di là di quei titoli svuota-cervello. Ci sono stati i punti altissimi (Ubriaco d’amore di Paul Thomas Anderson, l’universalmente sottovalutato The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach) e quelli più bassi (Reign Over Me, Mr Cobbler e la bottega magica). E poi c’è stato Diamanti grezzi, che rimane in un campionato a sé, e che ha saputo utilizzare e sintetizzare tutto quel che c’è di grande nell’alter ego pubblico di Sandler, costruendogli attorno un personaggio incredibile. Quel film non sembrava suggerirci che il comico stesse lavorando fuori dalla sua comfort zone, ma piuttosto che stava entrando in un altro territorio, un luogo in cui osare di più, in cui sperimentare tinte più scure. Era come se Sandler stesse elevandosi a un livello superiore senza però perdere ciò che in prima istanza lo aveva reso una star.

Hustle, il suo nuovo film disponibile su Netflix, non è Diamanti grezzi, neanche lontanamente. Ma non c’è bisogno che lo sia. È un film sportivo sorprendentemente riuscito che vuole essere qualcosa di più di un film sportivo sorprendentemente riuscito, e che gioca con tutti i cliché del caso per costruire qualcosa di fresco e nuovo. “L’ossessione vince sul talento” è una delle tante frasi motivazionali che sentirete, e non dubiterete mai del fatto che questo film è dovuto in gran parte a un’ossessione: Sandler è un grandissimo appassionato di pallacanestro. Non troverete tutto questo sangue, questo sudore, questa verosimiglianza in questo racconto a sfondo NBA se alla base non ci fosse quell’ossessione. A contribuire a questa riuscita c’è il fatto che il film ha dalla sua anche il talento: quello dei veri giocatori di basket coinvolti e quello del regista Jeremiah Zagar, che consegna una vibe ruvida e indie al progetto (la sua opera prima, Quando eravamo fratelli del 2018, era una poetica storia di coming of age da molti non imprudentemente paragonata al malickiano The Tree of Life).

Ma se è vero che è il lavoro di squadra a produrre il risultato finale, qui non c’è alcun dubbio su quale sia il giocatore di maggior valore, e quello che innalza tutto il gioco. Sandler può anche non essere l’unica ragione per cui Hustle funziona, ma è ciò che fa funzionare tutto molto meglio di quanto avrebbe potuto. Si sente l’effetto che ha prodotto il tempo passato con i fratelli Safdie (i registi di Diamanti grezzi, ndt) nel ritratto di Stanley Sugerman, lo scout sbiadito dei 76ers di Philadelphia ritrovatosi all’improvviso protagonista di una parabola triste, se non disperata.

Dopo aver passato tantissimo tempo in giro per il mondo, da Bangkok a Berlino, alla ricerca della nuova promessa della NBA, Sugerman sembra ormai aver perso la mano. Lo storico patron della squadra (Robert Duvall!) vorrebbe farlo diventare l’assistente dell’allenatore, una nuova posizione all’interno del team che gli permetterebbe di fermarsi e di passare più tempo con la moglie (Queen Latifah) e la figlia adolescente (Jordan Hull). Ma la morte improvvisa dell’anziano proprietario del team cambia tutto, e il figlio del patron (Ben Foster) lo rispedisce in trasferta per scovare “il Michael Jordan tedesco”, o chiunque possa risollevare i risultati accidentati della squadra. Un viaggio in Spagna si rivela un flop, finché Sugerman non scorge un ragazzo altissimo mentre gioca in un campetto pubblico. Il ragazzo si chiama Bo Cruz (a interpretarlo c’è il Juancho Hernangómez, vero giocatore degli Utah Jazz). Gli investitori del team a Philadelphia pensano che quel prodigio di strada sia solo “una giraffa sui pattini a rotelle”; agli occhi di Stanley, Cruz sembra invece un vero e proprio unicorno – “È come se Scotty Pippen e un lupo avessero avuto un figlio” – nonché la sua seconda occasione per rimettersi in pista.

Sugerman deve dunque diventare il mentore del ragazzo, e renderlo un giocatore all’altezza della Serie A statunitense. E quindi ci troviamo davanti al solito montaggio di scene di allenamento, ambientate nella città che non solo è il luogo natale di Zagar, ma anche – e non è un caso – il posto in cui si è formato Rocky Balboa, e quello che l’ha reso una leggenda dello sport. Parlando di Rocky, ci sono due tipi di film sui talenti sportivi che partono da zero e poi diventano dei miti: quelli che ti fanno capire fin dall’inizio che arriveranno al successo, e quelli che invece sembrano dirci che anche il mero provarci è già di per sé una vittoria. Hustle sembra continuamente farci dubitare se faccia del primo o del secondo filone, anche se fin dall’inizio sappiamo benissimo dove andrà a parare.

Non si riesce a non farsi travolgere da questa storia che sembra vecchia come il mondo, ma ciò avviene perché è Sandler a trascinarti dentro. Si dà sinceramente anima e corpo al progetto, e anche se butta qua e là dei “sandlerismi” tesi ad alleggerire il dramma, non pensi mai che ti stia facendo delle strizzatine d’occhio. Realizzare un dramma sportivo per una piattaforma di streaming che ti paga milioni di dollari non è esattamente un lavoro “d’autore”, ma Hustle sembra un progetto che Sandler ha fatto più per sé che per Netflix. È un feel-good movie che però fa di tutto per essere vero, sincero. Gli appassionati di basket si divertiranno a vedere come vengono usati i veri campioni della NBA. Tutti gli altri lo apprezzeranno semplicemente per quello che è.

Da Rolling Stone USA

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