‘Gigaton’, è presto per fare il funerale ai Pearl Jam | Rolling Stone Italia
Recensioni

‘Gigaton’, è presto per fare il funerale ai Pearl Jam

Nel primo album pubblicato da quando Trump è presidente, Eddie Vedder ringhia la sua insoddisfazione e dispensa speranza. È una buona notizia: i Pearl Jam sono invecchiati, ma non morti

I Pearl Jam nel 2020

Roger Daltrey degli Who ha detto che il segreto per cantare My Generation dopo mezzo secolo non è replicarne il celebre balbettamento, ma incanalarne la rabbia in modo credibile. Eddie Vedder approverebbe. Lui di rabbia ne sa qualcosa – stiamo parlando di uno che suonava super incazzato persino quando incitava la gente ad ascoltare musica in vinile – ma è cresciuto e la furia giovanile che alimentava i Pearl Jam è maturata con lui, trasformandosi in una forma di indignazione tipica della mezza età.

In Gigaton, il loro primo disco nell’era Trump, i Pearl Jam mescolano l’angoscia opprimente di Jeremy e Alive con un pizzico di dolcezza e qualche lampo di speranza. Vedder non canta solo di Trump (“una tragedia di errori”, lo chiama), ma gli dedica parecchio spazio. In Quick Escape, un inno con un riff che può ricordare gli U2, Vedder racconta un viaggio per “trovare un luogo che Trump non ha mandato a puttane”. Nella sorprendente e un po’ springsteeniana Seven O’Clock tira in ballo i nomi dei capi dei nativi americani Sitting Bull (Toro Seduto) e Crazy Horse (Cavallo Pazzo), mitici ribelli che si opposero al governo statunitense, per poi chiamare il presidente Sitting Bullshit (Stronzata Seduta). Cita il protagonista del romanzo satirico di Sean Penn ispirato a Trump Bob Honey Who Just Do Stuff nel diluvio di riff di Never Destination e dipinge un quadro tetro nel pezzo dal sapore gospel che chiude il disco, River Cross, dove canta di un governo che “prospera sul malcontento”.

Eddie Vedder non urla la sua rabbia come avrebbe fatto vent’anni fa. Il pezzo che apre il disco, Who Ever Said, è una specie di mantra pieno di speranza (“Chiunque abbia detto ‘è stato detto tutto’ ha rinunciato ad essere appagato”) con lick di Pete Townshend e un assolo in stile new wave. La musica è a tratti sorprendentemente ritmata. Si va dall’electro ballabile di Dance of the Clairvoyants, l’equivalente musicale di una palla curva, al grunge modello Soundgarden di Take the Long Way, scritto dal batterista Matt Cameron, fino al garage rock festaiolo di Superblood Wolfmoon, che ha un testo nonsense alla Louie Louie.

L’attenzione ai dettagli e alle sfumature sonore ed emotive presente in Gigaton è frutto della lunga gestazione: era da Lightning Bolt del 2013 che il gruppo non pubblicava un album. I pezzi più ritmati aprono l’album, quelli lenti e meditativi lo chiudono. Come Then Goes è una dedica acustica struggente a un amico scomparso, forse Chris Cornell, mentre in River Cross Vedder ci invita a “condividere la luce” su una base di organo a pompa. Gigaton dimostra che l’insoddisfazione dei Pearl Jam è più intensa che mai.

Altre notizie su:  Pearl Jam