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‘Father of All’ dei Green Day sono 27 minuti di rock’n’roll selvaggio

Uno, dos, tré, casino! La band di Billie Joe, Mike Dirnt e Tré Cool è oramai ininfluente sulla cultura pop, ma sa come farci divertire
4 / 5

Le cose belle durano poco. Father of All… è l’album più breve e più divertente registrato dai Green Day: meno di 27 selvaggissimi minuti per 10 canzoni che ripercorrono una cinquantina d’anni di storia del rock’n’roll. Partono con il singolo che dà il titolo al disco, doppietta schitarrata e voce in falsetto che ricorda gli MC5 di Ramblin’ Rose, e chiudono con Graffitia, pezzone batti-mani/batti-piedi che sembra uscito dal repertorio anni ’80 più gonfio di John Mellencamp o, voliamo alto, Bruce Springsteen.

Uno, dos, tré, casino! Non sono certamente i Green Day di American Idiot: ascoltando queste canzoni vengono in mente il triplo album sparato nel 2012 e, soprattutto, il side project Foxboro Hot-Tubs. Tra l’opera rock da stadio e il garage punk, a questo giro Billie Joe, Mike Dirnt e Tré Cool hanno senza ombra di dubbio scelto la seconda dimensione. Chitarre sferraglianti e ritmiche crude per un disco che non segnerà la loro storia né avrà alcun impatto sulla cultura pop contemporanea, ma garantirà a chiunque infinito, sano divertimento se suonato in modalità repeat. Father of All…, tredicesimo album in studio dei Green Day, non stanca mai.

Aiutati dalla produzione del fidato Chris Dugan e di mastro Butch Walker, Billie Joe, Mike Dirnt e Tré Cool hanno messo insieme frat rock (Stab You in the Heart, che cita con tutto il cuore la Hippy Hippy Shake resa celebre dai Beatles, e I Was a Teenage Teenager, tra Ramones e Weezer), soul/r&b di scuola Motown (Meet Me on the Roof, eccellente), glam stomposo (il singolo Oh Yeah!, tributo a Joan Jett e, per forza di cose, Gary Glitter), classicissimo punk rock (Sugar Youth, con il ritornello più Green Day di tutto l’album).

I Green Day hanno seguito nel corso della propria carriera l’evoluzione degli zii Who: prima la canzone pop melodica irruente, accelerata, che scombina le carte in tavola stabilendo nuovi standard, e poi il concept epocale che diventa classic rock. Con Father of All… riportano le lancette dell’orologio alle 00:00, big bang! Non c’è spazio per proclami politici e scontati slogan anti-Trump. È tutta salutare, scanzonata introspezione: divertiamoci, facciamo quello che ci pare, suoniamo, spacchiamo tutto e, quelle poche volte che rallentiamo – come nel caso di Junkies on a High – cantiamo “rock & roll tragedy, I think the next one could be me”.

Nonostante il perenne equilibrio precario, i Green Day sono riusciti a superare i 30 anni di carriera, collezionando almeno un paio di clamorose rinascite. Vero che questo è un gran bel disco anche perché dura poco, pochissimo, ma è anche vero, verissimo che la storia dei Green Day è bella lunga e sempre ricca di sorprese, come questo Father of All… che farà felice prima di tutti i fan invecchiati con loro.

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