Faith No More - Sol Invictus | Rolling Stone Italia
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Faith No More – Sol Invictus

Una delle scuse più diffuse tra gli artisti per giustificare l’incapacità di scrivere musica nuova di qualità è che il pubblico vuole solo sentire i classici. Per molte band esplose entro gli anni ’80 può anche essere vero. In quegli anni si abusò, al limite del criminale, di un modello che prevedeva ogni anno l’uscita […]

Una delle scuse più diffuse tra gli artisti per giustificare l’incapacità di scrivere musica nuova di qualità è che il pubblico vuole solo sentire i classici. Per molte band esplose entro gli anni ’80 può anche essere vero.In quegli anni si abusò, al limite del criminale, di un modello che prevedeva ogni anno l’uscita di album fatti di filler anonimo farcito con due o tre singoli, un sistema in grado di alimentare ancora oggi tour fatti di soli successoni per i quali folle di nostalgici ricoprono d’oro veri e propri bluff artistici. Purtroppo per loro però, ogni tanto qualcuno pubblica un nuovo album della madonna facendoci notare da un lato quanto l’imperatore di fatto sia nudo e dall’altro quanto sia ancora bello sacrificare i nostri timpani agli dei del rock. I guastafeste del mese sono i Faith No More che, come gli eroi tragici dati per morti dai cattivi, dopo 20 anni ritornano pronti a castigare tutti con 10 tracce di una bellezza disarmante.Incassato il gran rifiuto di Jim “Ugly” Martin a riappacificarsi con loro, il quintetto di San Francisco ha perseguito un ritorno alle radici con risultati inaspettati anche senza l’irsuto chitarrista. Optando per l’edizione in vinile è facile identificare nella side A la parte più fedele al passato dei Faith, dove, pur evitando di scimmiottare lo stile più ignorante di Martin e della sua Flying V, sono riusciti a non compromettere la feroce aggressività e il groove di brani come Separation Anxiety o il metal crooning di Sunny Side Up e Cone of Shame. La side B è invece l’apoteosi di quella geniale apertura eclettica voluta da Mike Patton dove la musica raggiunge vertici colossali con Motherfucker e, soprattutto, Matador: tragica, commovente, trionfale, forse troppo per tempi in cui dalle vecchie glorie ci si aspetta di tutto tranne che una bella canzone.

Una delle scuse più diffuse tra gli artisti per giustificare l’incapacità di scrivere musica nuova di qualità è che il pubblico vuole solo sentire i classici. Per molte band esplose entro gli anni ’80 può anche essere vero.

In quegli anni si abusò, al limite del criminale, di un modello che prevedeva ogni anno l’uscita di album fatti di filler anonimo farcito con due o tre singoli, un sistema in grado di alimentare ancora oggi tour fatti di soli successoni per i quali folle di nostalgici ricoprono d’oro veri e propri bluff artistici. Purtroppo per loro però, ogni tanto qualcuno pubblica un nuovo album della madonna facendoci notare da un lato quanto l’imperatore di fatto sia nudo e dall’altro quanto sia ancora bello sacrificare i nostri timpani agli dei del rock. I guastafeste del mese sono i Faith No More che, come gli eroi tragici dati per morti dai cattivi, dopo 20 anni ritornano pronti a castigare tutti con 10 tracce di una bellezza disarmante.

Incassato il gran rifiuto di Jim “Ugly” Martin a riappacificarsi con loro, il quintetto di San Francisco ha perseguito un ritorno alle radici con risultati inaspettati anche senza l’irsuto chitarrista. Optando per l’edizione in vinile è facile identificare nella side A la parte più fedele al passato dei Faith, dove, pur evitando di scimmiottare lo stile più ignorante di Martin e della sua Flying V, sono riusciti a non compromettere la feroce aggressività e il groove di brani come Separation Anxiety o il metal crooning di Sunny Side Up e Cone of Shame. La side B è invece l’apoteosi di quella geniale apertura eclettica voluta da Mike Patton dove la musica raggiunge vertici colossali con Motherfucker e, soprattutto, Matador: tragica, commovente, trionfale, forse troppo per tempi in cui dalle vecchie glorie ci si aspetta di tutto tranne che una bella canzone.

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