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‘Everything Everywhere All at Once’ è il multiverso di Michelle Yeoh, ed è bellissimo

Arriva in Italia uno dei film più acclamati dell’anno. Un viaggio tra action e intimismo che ci pone di fronte all’annosa domanda: chi siamo davvero? La risposta la dà la star protagonista: semplicemente magnifica
4 / 5

Everything Everywhere All at Once, ora nelle sale, è un fantastico viaggio alla scoperta di sé stessi nascosto sotto uno spettacolo action di altissimo livello visivo e concettuale. La protagonista è Michelle Yeoh, un’attrice che può fare davvero qualsiasi cosa: tutto quello che già sappiamo essere in grado di fare, e molto di più. Nei panni di Evelyn Wang, un’immigrata cinese negli Stati Uniti che si sente intrappolata in un matrimonio che non l’appaga più (o almeno così pare) e che tenta di tenere in piedi la lavanderia di famiglia, Yeoh riconsegna tutto il peso di chi sente di avere sprecato il proprio potenziale. Nei panni degli alter ego di Evelyn – ovvero delle versioni “in simultanea” della stessa donna, tutte contraddistinte dalle diverse scelte che hanno compiuto nel corso delle loro esistenze parallele – Yeoh si trasforma, di volta in volta, in una action star, in un’icona del cinema, in una cantante d’opera, in una chef di cucina giapponese, persino in una versione queer provvista di dita a forma di hot dog… Alcune di loro ricordano ruoli che Yeoh ha interpretato in passato, altre sembrerebbero ispirate alla vita dell’attrice stessa.

Ci vuole un po’ di magia o, come nel caso di questo film, un vero e proprio multiverso, per portare in vita così tanti aspetti diversi di una stessa personalità; e un multiverso è quello che Everything Everywhere All at Once – col suo mix di stili e registri e il suo impianto quasi biblico, per quantità di temi e citazioni – ha in mente. Ma per una star globale così talentuosa e malleabile come Yeoh non c’è bisogno di un multiverso: la sua filmografia parla già da sola. In essa convivono gli action “made in Hong Kong” che l’hanno resa celebre come Yes, Madam (1985), una delle vette del genere, e il Bond movie dell’era Pierce Brosnan Il domani non muore mai (1997); le rivisitazioni dei classici wuxia (La tigre e il dragone, 2000) e i drammoni in costume o biografici (Memorie di una geisha, 2005, e The Lady – L’amore per la libertà, 2011); fino a recentissimi prodotti romantico-pop di enorme successo (Crazy & Rich, 2018). Yeoh ha fatto Star Trek; ha partecipato ai film Marvel; è parte del Jackie Chan Cinematic Universe. Forse ci si era dimenticati di tutto questo, almeno finché quest’ultimo film di cui è protagonista non ci ha regalato una sorta di retrospettiva della sua carriera concentrata in due ore di spettacolo.

E tutto questo costituisce una parte – una piccolissima parte – della bellezza e del divertimento procurati da questo film. Everything Everywhere All at Once è stato scritto e diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert, il duo di registi noto come “The Daniels”, e conserva il marchio di fabbrica dei loro lavori fatti finora, dai videoclip ad altissimo tasso di creatività alle pirotecniche teen comedy (vedi Swiss Army Man, il loro debutto del 2016 indimenticabile anche solo per il cadavere flatulente di Daniel Radcliffe). Non tutto funziona, in Everything Everywhere All at Once. Alcune cose suonano un po’ ripetitive, e il finale sbraca in un certo sentimentalismo. Personalmente, sono stato meno colpito dai risvolti emotivi della trama, mentre invece mi ha entusiasmato il concept alla base di questa parabola: ma questo significa che il film ha fatto centro per quanto riguarda quella che era la sua parte più difficile.

Tutto ha inizio da alcune questioni di tasse. Evelyn gestisce un negozio di lavanderia insieme al marito Waymond (il bravissimo Ke Huy Quan), sotto l’occhio implacabile del padre Gong Gong (interpretato da James Hong, un’altra leggenda del cinema asiatico) e senza troppo aiuto da parte della figlia musona Joy (Stephanie Hsu), consapevole dal fatto che il suo preferire le ragazze non è del tutto accettato da parte della famiglia. L’ispettore fiscale, a cui dà volto una sopraccigliatissima Jamie Lee Curtis, le sta alle calcagna: la lavanderia rischia di essere ipotecata. Tutto questo però impallidisce di fronte al fatto che, da qualche parte nel multiverso in cui il film a poco a poco si espande, un supervillain di nome Jobu Tupaki sta sollevando un putiferio. Deve essere fermato a tutti i costi. E chi se non Michelle Yeoh può raccogliere questa sfida?

C’è bisogno dell’intervento di un altro Waymond, uno che non fa parte della realtà quotidiana di Evelyn, per spiegarle chi è lei davvero, e cosa può davvero fare. E questa è la parte più intima e toccante del film. Sì, il destino del multiverso è in pericolo, ma quello che importa alla storia è dirci che tutti questi universi differenti sono popolati dalla stessa Evelyn, semplicemente in forme diverse e con scelte e poteri diversi. Ogni bivio sul cammino della nostra vita, sembra volerci dire questa storia, ha delle conseguenze in una versione alternativa di noi stessi. La Evelyn che conosciamo, la cui lavanderia in bancarotta sta per essere confiscata da una Jamie Lee Curtis con una collezione di plug anali nel suo ufficio (meglio non farsi troppe domande in proposito), è il risultato di scelte personali e professionali che non le hanno permesso di mettere in luce la versione migliore di sé stessa. Nel frattempo, tutte quelle altre versioni sono in circolazione, e vivono ciascuna la propria realtà con le proprie diverse abilità; abilità che Evelyn non ha, o meglio che non sa di avere. E che la stessa Yeoh, nell’interpretare le diverse Evelyn, dimostra invece di possedere alla grande.

Michelle Yeoh con Jamie Lee Curtis. Foto: I Wonder Pictures

Perciò Evelyn – la Evelyn della “nostra” realtà – deve imparare a fare ricorso a tutte le altre versioni di sé stessa, in senso letterale. Una delle trovate più intelligenti di Everything Everywhere All at Once è questo approccio nei confronti delle abilità che ciascuno di noi può sviluppare; una cosa ben diversa, per dire, da precedenti come Matrix, dove le nuove skill di Keanu Reeves dipendevano semplicemente da una serie di programmi impiantati nel suo cervello. Le abilità, in questo caso, sono qualcosa che ognuno deve trovare in sé stesso. Allo stesso modo, Yeoh e i suoi colleghi devono trovare da soli il modo di adattarsi ai diversi universi stilistici creati dai Daniels. Devono passare da un elegantissimo romanticismo alla Wong Kar-wai a sequenze action mirabolanti, fino a momenti in stile Ratatouille che vedono coinvolto persino un procione. È un postmodernismo ironico e rétro che tiene insieme azione e comicità, e dove i superpoteri sono il semplice frutto di coreografie articolatissime che ricordano le migliori scene di Jackie Chan.

L’esito è un meraviglioso pastiche, con trucchi a volte più riusciti e altre meno, e addirittura un umorismo a sfondo sessuale non sempre convincente. Ma, anche solo per la grande prova della protagonista, tutto sta insieme. I film sui multiversi spesso impiegano troppo tempo a spiegarci il perché di quelle moltiplicazioni. Everything Everywhere All at Once, invece, affronta il concept alla base di tutto solo alla fine. L’ultima sequenza sembra la puntata finale di una serie concentrata in un montaggio serratissimo. Forse è tutto un po’ troppo frettoloso, ma tutto si risolve. I “sé stessi” veri e quelli paralleli s’incontrano, all at once. E si capisce che questo gioco è davvero valso a qualcosa.

Da Rolling Stone USA

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