‘Dopo il matrimonio’: basta con questi remake americani. Anche se c’è Michelle Williams | Rolling Stone Italia
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‘Dopo il matrimonio’: basta con questi remake americani. Anche se c’è Michelle Williams

L'attrice è così perfetta in questo rifacimento del mélo danese di Susanne Bier da farci credere di aver visto un film migliore di quello che è in realtà

Quando si arrabbia, Michelle Williams lo fa sul serio. Come tutti i grandi attori, ha uno spettro interpretativo incredibilmente ampio – dalla timida segretaria di The Baxter alla garrula Monroe di Marilyn, fino alla mater dolorosa di Manchester by the Sea – e la capacità di mettere le più impercettibili sfumature in ogni scena. Ma date a Williams un personaggio con una fragilissima percezione di sé, e l’occasione di trasformare questo dolore in una rabbia che cresce lentamente, e non la fermerete più. Nessuno sa trasformare la quiete in tempesta come lei. È una nevrotica da grande schermo di primissima qualità.

Considerate Dopo il matrimonio la prova principale a testimonianza di questa tesi; e la sua presenza la cosa migliore, se non l’unica, che possa giustificare il remake di Bart Freundlich dell’omonimo film danese strappalacrime del 2006. Facciamo la conoscenza del personaggio di Williams mentre è seduta nella posizione del loto in mezzo a un gruppo di bambini indiani. La sua Isabel gestisce un orfanotrofio a Calcutta; la sua frustrazione per l’eterna mancanza di fondi, cibo, eccetera è il primo indizio del ciclone all’orizzonte. Per fortuna, spunta un possibile finanziatore, che pare la risposta a tutte le loro preghiere. L’unica sua richiesta è incontrare Isabel in persona, prima di firmare l’assegno.

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Ed ecco dunque entrare in scena Theresa (Julianne Moore), la sua benefattrice nonché, da quel momento, la sua controparte nella storia. Direste che ha tutto: una società partita da zero che oggi vale miliardi di dollari, una casa magnifica, un affascinante marito-scultore (Billy Crudup, che affascinante lo è sempre, e ogni tanto si mette per davvero a scolpire blocchi di metallo). Theresa è perennemente al telefono a gestire affari e assegnare ordini, e pure a ritoccare gli ultimi dettagli del matrimonio di sua figlia (Abby Quinn). Sistema Isabel in un hotel di lusso e le mette a disposizione un autista, il che consente a Williams di rivolgere il primo dei tre sguardi memorabili piazzati nel corso del film. Lo sbigottimento esistenziale per tutta l’opulenza che si trova attorno – così tanto lusso, dopo anni di abitudine alla povertà – è scritto nei suoi occhi. C’è più sviluppo del personaggio in questa sua confusione che in tante intere performance.

Il secondo sguardo memorabile arriva quando le due protagoniste si incontrano, e Isabel scopre il motivo per cui Theresa vuole dedicare tutto questo tempo alla beneficenza. Subito dopo, l’imprenditrice interrompe la sua pedante litania su una serie di dati statistici per parlare con la sua assistente dell’aragosta prevista nel menu di nozze della figlia, e… be’, ricordate la rabbia di cui sopra? L’incredulità di Isabel è palpabile. Il suo bisogno di urlare insulti e parolacce sta venendo a poco a poco in superficie. Ma – sapendo che deve tollerare questi atteggiamenti, se in cambio vuole l’aiuto finanziario che le serve – nasconde la sua indignazione. (Tutto questo avviene davanti ai nostri occhi senza che lei dica una parola.) Ma Theresa vuole fare un’ulteriore analisi sui numeri. E allora perché Isabel non rimanda di qualche giorno il suo ritorno in India? Anzi, perché non va al matrimonio, che si tiene proprio quel weekend?

Ed eccoci allo sguardo numero 3, che scatta quando Isabel arriva (in ritardo) alla cerimonia. Seduta in una delle ultime file, nota che il padre della sposa ha un’aria familiare. Un po’ troppo familiare. Anche lui la riconosce, e ne rimane scioccato a sua volta. I due provano a parlarsi di nascosto, ma continuano ad essere interrotti. Isabel prova a restare calma, il che però pare un’impresa impossibile. Ma quando la sposa fa il suo discorso, un’improvvisa espressione di epifania attraversa il volto dell’invitata…

Chi tra voi ha visto il film originale, diretto da Susanne Bier e candidato all’Oscar, sa cosa succede poi, ma potrebbe comunque osservare come il cambio di genere della nuova versione – in quella del 2006 c’erano due uomini nei ruoli principali, Mads Mikkelsen e Rolf Lassgård – dia una risonanza diversa a questa storia di famiglia. Per quelli che invece non l’hanno visto, è comunque piuttosto chiaro dove questo mélo in stile Douglas Sirk voglia andare a parare, dunque dovranno sorbirsi il solito spettacolo di Attori Che Regalano Ottime Performance In Film Né Belli Né Brutti. Tutto diventa presto un drammone sopra le righe che sembra confezionato per la tv, con gli inevitabili intermezzi sdolcinati e un pianto a dirotto che fa schizzare il metro della gigioneria alle stelle.

Il materiale potenzialmente interessante è lasciato fuori dal copione (sappiamo perché Isabel è andata a salvare bambini in India, ma ci viene svelato ben poco del complesso da messia di un’occidentale con il bindi in mezzo alla fronte), e non viene aggiunto quasi nulla di nuovo al film di partenza. Dopo il matrimonio lascia tutto sulle spalle degli attori, e in cambio abbiamo Julianne Moore che si lancia in una masterclass sulla sbornia da vodka e Billy Crudup che aggiunge un senso di malinconia al suo ex golden boy diventato un borghesotto. Quanto ad Abby Quinn, tutto ciò che fa qui è la dimostrazione del fatto che la sua prova in Landline (2017) non è stata un’eccezione: riesce a mettere un tocco adorabile anche in personaggi terribili e appena abbozzati, come in questo caso.

Ma questo è lo show di Michelle Williams, e vale la pena soffermarsi su alcuni degli elementi attraverso cui riesce a costruire il suo personaggio, e a tramutare la dolcezza in disastro. Il modo in cui riesce ad essere al tempo stesso aperta e trattenuta, forte e a un passo dal crollo, furiosa ed empatica è sbalorditivo, nonostante il mezzo traballante su cui si trova a dover mantenere questo equilibrio. Dopo il matrimonio si rivela come l’ennesimo prodotto patinato ma modestissimo sul senso di colpa delle élite. Ma è solo grazie a Michelle Williams se, sui titoli di coda, vi sembrerà di aver visto un film migliore di quello che è in realtà.

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