Melvins e Mudhoney, la recensione di 'White Lazy Boy' | Rolling Stone Italia
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Dietro al gruppo formato da Melvins e Mudhoney c’è un pezzo di storia del grunge

Le due band hanno unito le forze nell’EP ‘White Lazy Boy’, due canzoni originali e due cover reperibili solo su CD. Non stupitevi: alla base del rock di Seattle c’è la fusione di hard e punk-rock

Buzz Osborne e Mark Arm

Foto: Suzi Pratt/FilmMagic

Siccome la cosa che chiamiamo grunge non è nata negli anni ’90 col successo dei Nirvana, ma è il frutto di un lento processo di sintesi iniziato negli anni ’80 fra metal e punk-rock e molte altre cose, e siccome nella scena di Seattle e dintorni tutti suonavano con tutti rendendo questo miscuglio perfettamente naturale, non stupisce che Melvins e Mudhoney si siano trovati a fare un disco assieme. È un EP di quattro canzoni, due originali e due cover, una cosa piccola, ma significativa. Si intitola White Lazy Boy. Il formato è decisamente anni ’90, questo sì: è reperibile solo su CD, niente vinile, né streaming. Lo stanno già ristampando.

Non che l’incontro fra i due gruppi fosse scontato. I primi, provenienti dalla provincia e non dalla scena di Seattle che hanno anche ridicolizzato, sono giganti underground dell’hard & heavy, producono un sound mostruosamente pesante, sanno suonare bene e amano tutto ciò che è inusuale. I secondi sono più agili e selvatici, non sono certo cultori della tecnica, sono fermi alle radici punk e garage rock, hanno un’idea decisamente meno progressiva della musica. Sono fedeli a una tradizione, diciamo, ma aperti a ogni esperienza come quella di fondersi per un quarto d’ora ai Melvins in un supergruppo che comprende Buzz Osborne, Dale Crover e Steve McDonald da una parte, Mark Arm e Steve Turner dall’altra.

Qualche punto in comune le due band ce l’hanno. Il bassista Matt Lukin, quello citato in una vecchia canzone dei Pearl Jam, ha suonato con entrambe le formazioni in passato. I due gruppi hanno al loro interno pensatori rock delle idee chiare e dalla visione priva di compromessi, ovvero Osbourne e Arm. Hanno compiuto un percorso simile dall’underground più profondo a un’etichetta major e di nuovo nell’underground perché non c’era modo di vendere alla massa la loro musica, nonostante la provenienza geografica che andava di moda nei ’90. Sono stati entrambi punti di riferimento del rock del Pacific Northwest, e in particolare di Kurt Cobain che da ragazzo seguiva come un’ombra Osborne e idolatrava Arm.

Buzz Osborne interpreta Walking Crazy, un pezzo dal riff mostruoso alla Melvins e con tracce del punk-blues tipico dei Mudhoney, mentre Arm canta Ten Minute Visitation che suona come un pezzo del suo gruppo, fortificato però da chitarre metalliche. Una delle cover è Drive Back di Neil Young. Stava su Zuma, uno degli album che fece guadagnare al canadese anni dopo il nomignolo di padrino del grunge. Il supergruppo sdoppia il riff, appesantisce la ritmica, rende il pezzo meno agile e più apocalittico, facendo leva sul tono disturbato del testo. Anche se le registrazioni sembrano frutto di esecuzioni istintive e non di un pensiero musicale, in tutto l’EP si sente la tensione fra il passo pesante e controllato dei Melvins e il carattere indisciplinato dei Mudhoney.

Drive Back è forse il pezzo migliore dell’EP, ma la cover più significativa è quella di My War, dall’album omonimo dei Black Flag. Quel disco sta alla base del grunge. Nel 1984 la band di Henry Rollins e Greg Ginn fece una mossa spiazzante e per certi versi azzardata: rallentò il suo hardcore furioso rendendolo heavy e melmoso. Ed è alla seconda facciata di My War, e naturalmente ai Black Sabbath e ad altre cose, che s’ispirarono i gruppi del Pacific Northwest nella seconda metà degli anni ’80.

Melvins e Mudhoney danno una bella scossa al pezzo in un interessante rovesciamento di prospettiva. My War ha insegnato loro, quand’erano giovani, a rallentare. Ora serve a dimostrare che anche dopo i 50 anni c’è vita e fame di musica. Ed è questo, forse, il vero significato di questo dischetto.

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