'Detroit: Become Human', la recensione | Rolling Stone Italia
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‘Detroit: Become Human’ è un saggio interattivo sull’intelligenza artificiale

Dopo 'Heavy Rain' e 'Beyond: Two Souls', David Cage torna con un gioco coraggioso che nonostante le atmosfere sci-fi racconta il presente

In tempi di home speaker che emettono risolini inquietanti (Alexa), vetture autonome accusate – ingiustamente? – di ammazzare i propri non-guidatori (Tesla) e serie tv di successo incentrate sulla rivolta dei robot contro gli umani (Westworld), il tema dell’intelligenza artificiale e dei suoi rischi non è mai stato così hot.

Così Detroit: Become Human, il nuovo interactive drama firmato David Cage, già autore di opere imperfette e affascinanti come Heavy Rain e Beyond: Two Souls, sembra più un saggio filosofico sul presente che una storia sci-fi. Ambientato nel 2038, racconta le vicende parallele e convergenti di tre androidi: Kara, che stringe un legame con una bambina; Connor, un detective il cui compito è arrestare i robot che si comportano in modo anomalo; e Markus, che scopre la propria unicità e decide di aiutare altri androidi a ribellarsi al giogo umano.

Come in un vecchio librogame ogni decisione del giocatore modella la storia, ma è possibile tornare indietro in caso di rimpianti, o solo per esplorare tutte le possibilità. Qualche soluzione di sceneggiatura è un po’ banale e spesso l’interazione sembra proposta solo per distinguere il gioco da un filmato. Ma a Detroit non manca il coraggio di affrontare temi difficili e, insieme al brivido del sapere che ogni scelta ha un peso, tutto ciò rende questa nuova storia, che confonde i limiti tra cinema e gioco, davvero emozionante. E complessa come solo una mente umana, o artificiale, può essere.