Dan Treacy è il dio dimenticato del punk | Rolling Stone Italia
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Dan Treacy è il dio dimenticato del punk

Una doppia raccolta per riscoprire i Television Personalities e uno dei più grandi songwriter britannici, alla faccia di Wikipedia

Se dopo un estenuante dibattito si può convenire su una quantomeno orientativa data di nascita del punk, è praticamente impossibile accordarsi sulla data del decesso. Probabilmente il primo motivo è perché il punk non è mai morto, ma se parli con chi c’era o chi avrebbe voluto esserci, ti dirà con una certa dose di nostalgia che da un certo punto in poi – un punto sempre più prossimo alla stessa data di nascita – le cose non sono state più le stesse, in una specie di paradosso di Zenone a ritroso all’infinito. Che vuol dire? Forse che il punk è nato morto, o quasi, contaminato e radioattivo come minimo.

I Television Personalities si sono formati in un momento in cui l’esposizione alle radiazioni era a livelli esorbitanti: King’s Road, Chelsea, Londra 1977, praticamente il centro della zona di alienazione. Post-punk, punk part-time, new wave, mods (prima di te, ma solo per quanto riguarda il revival), mettetela come vi pare, si tratta in ogni caso del germoglio del seme marcio più puro. Non a caso il fondatore, la mente, il cuore e l’anima del gruppo, Dan Treacy ha pensato bene di tirare su un gruppo dopo aver visto dal vivo Sex Pistols e The Modern Lovers.

In occasione del Record Store Day di quest’anno, la Fire Records ha pubblicato una doppia raccolta di singoli, rarità, backstage: Some kind of happening che va dal 1978 al 1989 e Some kind of trip, 1990-1994. Un’opera decisamente mastodontica che ha il non trascurabile pregio di fungere da ottima guida per neofiti e al tempo stesso accontentare collezionisti e fanatici della band, che esistono ma sono troppo pochi, un po’ per questioni anagrafiche, un po’ perché a tutti gli effetti i Television Personalities non hanno mai raccolto tutto quello che avrebbero meritato, anzi, a dirla tutta hanno raccolto davvero poco in quarant’anni di carriera, senza neanche godere del fascino dei perdenti. Esiste qualcosa di più punk?

Da qualche tempo ci si prova a portare un po’ di meritata gloria ai TVPs, nel 2006 per esempio, la Domino Records ha convinto Treacy a sfornare un nuovo album di inediti dopo un decennio di merda, tra esaurimento nervoso, eroina, vagabondaggio e il susseguirsi di voci sulla sua presunta morte, ma My dark places non ebbe grande successo (pur essendo un capolavoro caustico, lo-fi, amaro e oscuro). Per intenderci, Treacy è uno dei più grandi songwriter britannici, lo è davvero, e non ha una pagina Wikipedia dedicata. Okay, è una cazzata insignificante, ma visto che siamo nel 2019 in qualche modo è un metro di misura per capire l’oblio in cui è finito.

A proposito di oblio, dopo un ictus e qualche giorno di coma Treacy sopravvive per miracolo, e nel 2018 rimette mano al “disco perduto”, sempre via Fire Records, esce Beautiful despair registrato in parte nel 1990 e mai diffuso. Anche in questo caso: praticamente un albero che cade nella foresta senza nessuno nei dintorni. Eppure di rumore ce n’è eccome in quel disco.

Con questa doppia raccolta però le cose sono diverse, non si tratta di materiale di scarto, né di inediti incisi in periodi di pessima forma, qui si tratta degli anni d’oro. Un tributo lungo ore e ore, per ripercorrere una carriera sofferta e piena di meraviglie, iniziata da diciassettenne, con la voce nasale, l’accento sporco londinese, sonorità che lentamente si sono ammorbidite e hanno ispirato quasi ufficialmente l’indie pop dalla fine del millennio fino ai giorni nostri. Niente male per uno che “avrebbe potuto essere migliore dei Beatles”, ma era troppo impegnato a sopravvivere, troppo impegnato a vivere una bugia, troppo impegnato a essere un punk.

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