Crystal Castles - Amnesty (I) | Rolling Stone Italia
Recensioni

Crystal Castles – Amnesty (I)

Leggi la nostra recensione di Divine Comedy su Rollingstone.it

Il modello prospettato da alcuni futurologi in cui i diversi stili musicali del passato e del presente avrebbero convissuto pacificamente nei verdi campi dell’internet – come in una di quelle illustrazioni pastello di paradisi biblici in cui i leoni giocano con gli agnelli – si è verificato, per il momento, solo a metà: ci sono ancora, e per fortuna, generi che interpretano e cavalcano il presente in modo più o meno fugace e altri che, a conclusione del proprio ciclo di vita attendono sotto il cono d’ombra (o nuvoletta di Fantozzi) delle musiche di ieri, il momento giusto per ghermire l’eventualità e, soprattutto, la speranza di una seconda ribalta. Il ruolo di ricordo ancora troppo recente tocca, questa volta, al micro-genere witch-house che ha raggiunto un picco (relativo) di popolarità circa sei anni fa: per chi non ricorda, si trattava di un mix di trap rap e synth-pop darkettone innaffiato di riverbero e tristezza fotogenica di cui i canadesi Crystal Castles sono stati tra gli interpreti meno didascalici e, per questo, anche tra i più convincenti. Nell’autunno di un paio di anni fa, la cantante storica della band – Alice Glass – aveva annunciato il desiderio di uscire dal gruppo, separandosi dall’ex sodale Ethan Kath per i canonici “motivi artistici e personali” in una mossa che, pareva, avrebbe chiuso definitivamente la partita, visto il ruolo che Alice ricopriva all’interno del duo. Ed eccoli qui, invece, di nuovo tra noi ma con la nuova vocalist, Edith Frances: nessuna sostanziale novità da registrare per i fan storici rispetto a (III) del 2012, se non una stilizzazione della ricetta della band in una specie di euro-trance indie, ancora più incupita e ancora più muscolare. Amnesty (I) potrebbe certamente fare da colonna sonora a un film horror d’essai: dentro ci sarebbero i teenager irascibili e annoiati della profonda provincia statunitense, droghe assunte sportivamente all’interno di un club in tutto e per tutto identico al Bronze di Buffy l’ammazzavampiri, tantissimo denim, t-shirt di band metal e, probabilmente, qualche foresta di conifere in inverno.

Questa recensione è stata pubblicata sul Rolling Stone di settembre. Clicca sulle icone qui sotto per leggere l'edizione digitale.
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Il modello prospettato da alcuni futurologi in cui i diversi stili musicali del passato e del presente avrebbero convissuto pacificamente nei verdi campi dell’internet – come in una di quelle illustrazioni pastello di paradisi biblici in cui i leoni giocano con gli agnelli – si è verificato, per il momento, solo a metà: ci sono ancora, e per fortuna, generi che interpretano e cavalcano il presente in modo più o meno fugace e altri che, a conclusione del proprio ciclo di vita attendono sotto il cono d’ombra (o nuvoletta di Fantozzi) delle musiche di ieri, il momento giusto per ghermire l’eventualità e, soprattutto, la speranza di una seconda ribalta.
Il ruolo di ricordo ancora troppo recente tocca, questa volta, al micro-genere witch-house che ha raggiunto un picco (relativo) di popolarità circa sei anni fa: per chi non ricorda, si trattava di un mix di trap rap e synth-pop darkettone innaffiato di riverbero e tristezza fotogenica di cui i canadesi Crystal Castles sono stati tra gli interpreti meno didascalici e, per questo, anche tra i più convincenti. Nell’autunno di un paio di anni fa, la cantante storica della band – Alice Glass – aveva annunciato il desiderio di uscire dal gruppo, separandosi dall’ex sodale Ethan Kath per i canonici “motivi artistici e personali” in una mossa che, pareva, avrebbe chiuso definitivamente la partita, visto il ruolo che Alice ricopriva all’interno del duo. Ed eccoli qui, invece, di nuovo tra noi ma con la nuova vocalist, Edith Frances: nessuna sostanziale novità da registrare per i fan storici rispetto a (III) del 2012, se non una stilizzazione della ricetta della band in una specie di euro-trance indie, ancora più incupita e ancora più muscolare.
Amnesty (I) potrebbe certamente fare da colonna sonora a un film horror d’essai: dentro ci sarebbero i teenager irascibili e annoiati della profonda provincia statunitense, droghe assunte sportivamente all’interno di un club in tutto e per tutto identico al Bronze di Buffy l’ammazzavampiri, tantissimo denim, t-shirt di band metal e, probabilmente, qualche foresta di conifere in inverno.

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