‘Cry Macho – Ritorno a casa’: solo Clint Eastwood l’immortale può farci la morale | Rolling Stone Italia
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‘Cry Macho – Ritorno a casa’: solo Clint Eastwood l’immortale può farci la morale

A 91 anni (!), l’ultimo divo di Hollywood dirige e interpreta una storia che ha l’eco di tanti suoi film precedenti. E che ancora riesce a portare avanti un discorso sulla giustizia e l’autorità che solo lui sa fare

Clint Eastwood in ‘Cry Macho – Ritorno a casa’

Foto: Claire Folger/Warner Bros.

La stranezza insita in Cry Macho – Ritorno a casa di Clint Eastwood, ora nelle sale italiane, non può essere ridotta a una sola cosa, ma la sua origine come film diretto e interpretato da una figura così prominente di Hollywood è, appunto, sorprendente. Per molti versi, questo film è una specie di studio di Eastwood su Eastwood, un’opera-testamento, una rivisitazione del suo stesso mito, una creatura che avrebbe potuto sorprendere persino il Dottor Frankenstein in persona. I suoi elementi principali – l’impalcatura da tipico film di genere e la sua natura di prodotto a basso costo e un po’ confuso tipiche del recente cinema del suo autore – non può non far pensare a tutto quello che è venuto prima. Eastwood ha 91 anni, dunque è inevitabile che ogni film sia un lavoro crepuscolare, quasi un consapevole atto di riflessione su sé stesso. Dai più anziani non ci aspettiamo altro se non la capacità di guardare indietro, poiché – o almeno è quello che crediamo noi – davanti non resta molto da guardare.

E invece su questo ci sbagliamo, anche se Cry Macho ha tutti i crismi del film che guarda al passato. Del resto, si presta a un confronto con tantissimi titoli di Eastwood. È, a suo modo, un’altra versione di Un mondo perfetto (1993): la storia di un uomo, di un bambino, di un rapimento, di uno scontro tra personaggi che non può mai essere ridotto a Bene vs. Male. Ed è anche Gran Torino (2008): l’uomo Eastwood che interpreta “l’idea” dell’icona Eastwood, con in aggiunta le differenze di etnia e cultura relative alla storia di quell’icona. Ed è anche Il corriere – The Mule (2018): un tenero e malinconico racconto quasi meta-testuale dove il veterano del cinema non vuole più fare i conti col suo essere un autore dalla drammaturgia classica, pulita e realistica, ma col semplice voler raccontare una storia – anche se un po’ stramba e a volte ideologicamente fastidiosa.

CRY MACHO - RITORNO A CASA | Trailer Ufficiale italiano

C’è tutto questo, nell’ultimo film di Eastwood. Ma, in un modo o nell’altro, c’è spazio per molto di più. Perché Cry Macho è anche, come tanti altri titoli precedenti, un film sui pericoli della fama, un tema che questo regista e divo è più che titolato ad esplorare. Tutti, nell’epoca in cui viviamo, sono un’“icona”: ok. Ma sicuramente esiste una VIP lounge a cui sono hanno accesso soltanto figure che possono essere considerate per davvero icone visive e culturali; persone che sono diventate un simbolo potentissimo nell’immaginario collettivo. Questo di per sé non spiega perché, fin dal suo esordio come regista (Brivido nella notte, 1971), Eastwood sia tornato molte volte sul tema della fama, se non della leggenda. Ma è una delle ragioni per cui le sue opere hanno sempre avuto molto da dire sull’argomento, e molto più di tante altre. Potremmo parlare dell’eroe degli Spietati, la cui violenta reputazione lo precede quasi come fosse una maledizione; o del più recente Sully, col suo eroe riluttante, piuttosto un uomo che si vede non tanto quanto un salvatore, ma come una persona che ha agito secondo istinti umani e professionali, ma che viene accusato di fronte a una società che vuole chiedergli conto di quegli istinti.

Potremmo andare avanti – anche Bronco Billy meriterebbe una menzione – ma questo basta a far capire quanto Cry Macho sia profondamente un film di Clint Eastwood. Anche se avrebbe dovuto essere un film con Arnold Schwarzenegger, e ancora prima con Roy Scheider; e lo stesso Eastwood l’aveva rifiutato, negli anni ’80, per girare un altro capitolo della saga dell’Ispettore Callaghan. Nel grande schema delle cose di Hollywood, questo film esiste solo perché il romanzo omonimo da cui è tratto, uscito nel 1975 e firmato da N. Richard Nash, è diventato un libro perché gli Studios l’avevano rifiutato come sceneggiatura – e tutto questo lo rende ancora più interessante. E fa superare certe iniziali ritrosie quando si vede Clint che monta un cavallo, dimostrando la sua età ma mai soccombendo ad essa; o quando lo si ascolta pronunciare battute da saggio bastardo nei confronti di un ragazzo il cui unico possesso è un gallo di nome Macho.

Eastwood veste i panni di Mike Milo: ex star dei rodeo e allenatore di cavalli provetto, viene licenziato nella prima scena del suo stesso film. Il suo capo, Howard (Dwight Yoakam), si produce in uno di quei monologhi che, si capisce, avrebbe voluto fare da tempo. Mike adesso non è nessuno. C’è stato un incidente e, in un altro momento, anche una tragedia. Poi è arrivato l’alcol, e l’abuso di droghe – insomma, sapete come vanno queste cose. Ora è solo un peso. Finché non lo sarà più. Un anno dopo averlo fatto fuori, Howard ha bisogno di un favore. È un favore bizzarro sotto ogni punto di vista: potresti, per favore, andare in Messico a recuperare mio figlio che non vedo da quando aveva sei anni nonché rapito dalla sua stessa madre? Mike non sa dire di no.

Perciò questo è un film su un contro-rapimento – ma, o almeno è quel che pensa Mike, fatto per i giusti motivi. Quando il protagonista arriva a Città del Messico, il ragazzo che deve cercare, Rafo (Eduardo Minett), sembra tutt’altro che intenzionato ad andarsene. La gente dice che è un balordo; che vive per strada perché “le cose brutte gli capitano dentro casa”. Sua madre Leta (Fernanda Urrejola), dalla caratterizzazione decisamente connotata, passa dal potere alla seduzione, ragione per cui è meglio che Rafo se ne stia alla larga. Vi stupirebbe venire a sapere che il padre è lo stesso? Ma non preoccupatevi: il vecchio, il ragazzino e l’adorabile gallo faranno di testa loro, e tutte le cose che devono accadere tra loro in un film come questo ovviamente accadono.

I due raggiungono una tregua mentre devono fronteggiare un mondo pieno di pericoli (ci si mettono pure i federali), e riescono a trovare un po’ di fiato solo grazie alle amorevoli attenzioni di una donna di nome Marta (Natalia Traven), dalla generosità del tutto spontanea. Ci sarebbe molto di più da sapere sul perché e il percome di tutta la vicenda, ma Cry Macho riduce tutto all’essenziale. Il film è un continuo passare dall’imminente pericolo a declamazioni un po’ di sapere; e, di tanto in tanto, qualche piacere della vita che l’uomo-che-ha-visto-tutto Mike forse non credeva di riassaporare sul suo cammino. La trama di Cry Macho è molto semplice: Mike e Rafo scappano, trovano rifugio grazie alla gentilezza di un’estranea e, tutto d’un tratto, vengono circondati da altri sconosciuti – agenti di polizia – che sembrano avvoltoi.

Quella nuova, tranquilla vita viene spazzata via dalla realtà: quella è una caccia, non una vacanza. Tutto ciò che di buono accade è solo temporaneo: un nuovo amore per Mike; una nuova casa per Rafo. Niente può durare. Cry Macho è sfacciato nel suo sentimentalismo, e anche troppo affrettato. All’improvviso vediamo Mike e Marta ballare insieme, il che sembra troppo bello per essere vero: e infatti lo è. Ma è proprio questo sentimentalismo a far funzionare il film: Eastwood non è mai stato restio a girare film strappalacrime, e la sua età avanzata non costituisce ancora oggi un problema. Il copione (firmato Nick Schenk e N. Richard Nash) a volte ha il letteralismo da film per la tv di prima serata. Eastwood è arrivato a un punto della carriera in cui può permettersi di affidarsi anche a un copione un po’ pasticciato. Cry Macho ne è la prova: è un po’ troppo trito, un po’ troppo sdolcinato.

Clint Eastwood con Eduardo Minett e il gallo Macho. Foto: Warner Bros.

Ma, in fondo, non è un limite. Il film ci mostra sempre il punto in cui dobbiamo guardare, e non sono le scene meno plausibili o i twist di sceneggiatura poco credibili. È negli occhi di Clint che dobbiamo guardare, nello sguardo che rivela tutto un mondo, un’esperienza. E anche all’amicizia tenera e impossibile tra Mike e Rafo, che supera le parole spesso banali messe loro in bocca. E, ancora, nella caratterizzazione della polizia e delle altre autorità, tutte rappresentate fin dall’inizio – dall’istante in cui Mike varca il confine del Messico – con un misto di potere e inefficacia. O almeno, quello che è ben lontano dal loro potere è qualsivoglia senso di vera autorità morale. È solo un’esibizione muscolare di forza, cosa che è era già presente nei recenti Richard Jewell e Il corriere – The Mule.

C’è un’idea di grande valore alla base. Segna una linea di demarcazione, a volte ovvia altre no, nella carriera dell’Eastwood sia attore che regista, colui che è passato dal ruolo di vigilante senza nome dei western di Sergio Leone, che aveva un’autorità tutta sua, al tragicamente oppressivo poliziotto di Un mondo perfetto, fino ai fastidiosissimi agenti governativi di Sully. Il concetto di valore che ha Eastwood è ben diverso dalla classica forma di eroismo o anche dalla giustizia politica e morale. E il valore – Cry Macho e tanti altri film di Eastwood sono qui a testimoniarlo – è un sentimento oggigiorno decisamente raro da trovare. Sembra del tutto fuori moda, specialmente per la definizione che i film hollywoodiani ne hanno offerto nel corso degli anni – e soprattutto i film che sono il terreno d’elezione e d’identificazione principale di Eastwood, vale a dire i western.

Il valore, nei film di Eastwood, si distingue chiaramente dal fatto che uno possa avere un distintivo o un’autorità assegnata. Pensate a quanto suona oggi complesso il valore che Eastwood attribuisce al suo Richard Jewell. È un uomo che, peccando di imbarazzante hubris, ha il desiderio di diventare un poliziotto e si comporta come tale anche se non lo è; e che, in un atto di vero eroismo, non passa per un eroe, ma per un capro espiatorio. Ma, al tempo stesso, sa ribaltare tutte le aspettative e aggiungere qualcosa di nuovo al discorso. Cry Macho ha due finali diversi: uno più dolceamaro, l’altro più legato al tema della morale. Entrambe le conclusioni possono suonare prevedibili. Ma sono i sentimenti che provocano a renderli tutti e due efficaci.

Da Rolling Stone USA

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