Calexico e Iron & Wine: è successo un'altra volta | Rolling Stone Italia
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Calexico e Iron & Wine: è successo un’altra volta

A quindici anni dal primo disco insieme, i tre musicisti tornano a fondersi in "Years to burn", una splendida celebrazione del folk nel senso più puro del termine

In un certo senso c’è qualcosa di messianico nella musica folk oggigiorno. Non soltanto perché sopravvive ostinatamente e uguale a se stessa nella sua purezza, anche nell’epoca delle macchine, dell’intelligenza artificiale e della riproduzione automatizzata, ma anche perché, se mai dovesse esserci un blackout globale o se, ancora peggio, un giorno una calamità naturale dovesse costringerci in quanto specie a regredire dei progressi tecnologici, certamente di tutta quella allegra faccenda che chiamiamo rock’n’roll, resterebbero attive soprattutto band folk a portare avanti il Verbo.

Mettici che in Years to burn le sonorità sono spesso gospel, ancestrali, religiose, non è difficile immaginarsi piccole tribù di uomini e donne che nei futuri anni Sessanta svolgono la messa cantando questi brani su Marte.

Iron and Wine e Calexico l’hanno fatto di nuovo, a distanza di quindici anni da In the Reins, hanno scritto un album assieme, e l’hanno fatto prendendo tutte le accortezze di chi vuole fare un lavoro autentico e tradizionale, da tramandare e a prova di antropocene. Lo hanno fatto registrando le otto tracce nello studio Sound Emporium di Nashville, storica sede attiva dai primi anni Sessanta, del Novecento s’intende, scrivendo le canzoni su pezzi di carta nelle camere dei motel degli Stati Uniti del Sud, inviandosi lettere con i testi e gli accordi, tutto pienamente ecosostenibile.

Il risultato non è distante da niente di quello che ci si aspetta, ovvero un immaginario bucolico, fatto di colline verdi incontaminate, di fiumi dormienti e deserti, in una parola: Tennessee. Riferimenti che non potevano essere più espliciti nella suite-trittico Bitter Sweet Suite suddivisa in Pajaro, Evil Eye e Tennessee Train. Si comincia con un arpeggio e un canto corale, si passa per trombe riverberate e l’arrivo di una batteria incalzante, per poi tornare al punto di partenza, metafora dell’uroboro di una vita dolce-amara.

«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo», solo la musica folk non può tornare, ma solo perché non se ne è mai andata e mai lo farà, nei secoli dei secoli.

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