Brian Wilson - No Pier Pressure | Rolling Stone Italia
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Brian Wilson – No Pier Pressure

L’undicesimo album di Brian Wilson è stato registrato nello storico teatro dei suoi fantasmi: gli Ocean Way Studios di Los Angeles dove si fece Smile (tipo il set di Birdman, però al cubo). Ecco un altro di quei castelli costruiti con la sabbia della riva – mentre gli amici se la spassano col surf sulle […]

L’undicesimo album di Brian Wilson è stato registrato nello storico teatro dei suoi fantasmi: gli Ocean Way Studios di Los Angeles dove si fece Smile (tipo il set di Birdman, però al cubo).Ecco un altro di quei castelli costruiti con la sabbia della riva – mentre gli amici se la spassano col surf sulle onde – di cui il genio della musica incompiuta del XX secolo è indiscusso maestro. Doveva essere un album triplo, doveva contenere un’intera suite e una parte di soli strumentali. Doveva avere per ospiti Lana Del Rey e Frank Ocean, Jeff Beck e i Beach Boys superstiti, per i quali originariamente questo materiale era stato scritto. E invece no.A parte Al Jardin e il povero Mark Isham, Wilson rinuncia incomprensibilmente a qualsiasi (mini) glamour e si circonda di giovani volenterosi e fenomeni da talent. Col risultato che si può immaginare. Anzi, molto peggio.Nelle Smile Sessions pubblicate qualche anno fa, canzoni come Good Vibrations o Surf’s Up apparivano finalmente nella loro nuda verità: decine e decine di frammenti. Come il cantus firmus gregoriano o il Bach del clavicembalo ben temperato, la musica di Wilson non appartiene a questo mondo, ma “tende a Dio”, e può indicarci niente più che la finitezza dell’esperienza umana. Per sentirla davvero si dovrebbe avere ancora l’innocenza dei bambini oppure degli angeli. E ahimè, non siamo (più) né l’uno né l’altro. “La vita va avanti e ancora avanti / come la nostra canzone preferita”, suggeriscono i primi versi di This Beautiful Day, il pezzo che apre l’album, cantato in struggente solitudine al pianoforte per 10 secondi soltanto. Divini, sì. Gli unici che vale la pena ascoltare

L’undicesimo album di Brian Wilson è stato registrato nello storico teatro dei suoi fantasmi: gli Ocean Way Studios di Los Angeles dove si fece Smile (tipo il set di Birdman, però al cubo).

Ecco un altro di quei castelli costruiti con la sabbia della riva – mentre gli amici se la spassano col surf sulle onde – di cui il genio della musica incompiuta del XX secolo è indiscusso maestro. Doveva essere un album triplo, doveva contenere un’intera suite e una parte di soli strumentali. Doveva avere per ospiti Lana Del Rey e Frank Ocean, Jeff Beck e i Beach Boys superstiti, per i quali originariamente questo materiale era stato scritto. E invece no.

A parte Al Jardin e il povero Mark Isham, Wilson rinuncia incomprensibilmente a qualsiasi (mini) glamour e si circonda di giovani volenterosi e fenomeni da talent. Col risultato che si può immaginare. Anzi, molto peggio.

Nelle Smile Sessions pubblicate qualche anno fa, canzoni come Good Vibrations o Surf’s Up apparivano finalmente nella loro nuda verità: decine e decine di frammenti. Come il cantus firmus gregoriano o il Bach del clavicembalo ben temperato, la musica di Wilson non appartiene a questo mondo, ma “tende a Dio”, e può indicarci niente più che la finitezza dell’esperienza umana.
Per sentirla davvero si dovrebbe avere ancora l’innocenza dei bambini oppure degli angeli. E ahimè, non siamo (più) né l’uno né l’altro. “La vita va avanti e ancora avanti / come la nostra canzone preferita”, suggeriscono i primi versi di This Beautiful Day, il pezzo che apre l’album, cantato in struggente solitudine al pianoforte per 10 secondi soltanto. Divini, sì. Gli unici che vale la pena ascoltare

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