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Brian Eno – Reflection

Leggi la recensione dell'ultimo disco di Eno, un'unica traccia di 54 minuti, su RollingStone.it
4 / 5

L’uomo più intelligente attivo nell’industria musicale, disse qualcuno. Iperbolica e fortunatamente indimostrabile, la definizione però racconta un percorso costruito su pacatezza e pensosità: anche quando sorride da uno scatto d’epoca – truccato, brandendo una chitarra elettrica in divisa glam – è impossibile non immaginarlo un’ora dopo la sessione fotografica, seduto su una poltrona a sorseggiare tè. Lo sguardo di Eno ha però incrociato più volte il canone, deviandone sensibilmente la traiettoria: i primi (titanici) Roxy Music, la manina santa sul periodo berlinese di Bowie, la lettura dell’underground newyorkese di fine ’70 nella compilation No New York, la supervisione all’allucinazione messianico-plasticosa degli U2 nei primi anni ’90. Per non dire di Another Green World, capolavoro pop assoluto del 1975.

Questo Reflection riparte però da un album uscito appena qualche mese dopo, Discreet Music, in cui s’immerge nel genere che di lì a poco chiameremo ambient: ispirandosi alla “musica da arredamento” di Erik Satie, ambisce a un suono nuovo che s’insinui nelle case come profumo o il colore della carta da parati. Modulandone l’atmosfera senza esigere attenzione esclusiva. Qui Eno si limita a scegliere il materiale sonoro grezzo e a stabilire le regole che soprassiedono al suo assemblaggio, delegando la composizione ad algoritmi. Ed è la mappa di un regno invernale, fatto di tinte sottilissime e di correnti cristallizzate, di tonfi e soffi che mulinano su se stessi. Più che la “necessaria catarsi per l’anno trascorso” del comunicato stampa, suona come una profezia indecifrabile per l’anno a venire. Nessun climax, nessuna drammaturgia riconoscibile, ma è impossibile non perdersi dentro questo disco che rappresenta solo una delle possibili vite del progetto: Eno, rilasciando il software su piattaforme iOS darà, a chi vuole, la possibilità di produrne/ascoltarne infinite variazioni.

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