BLOOD ORANGE – FREETOWN SOUND | Rolling Stone Italia
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BLOOD ORANGE – FREETOWN SOUND

Fatevi un giro su Genius (o altri siti che archiviano testi) per verificare di persona il numero di frasi che si chiudono su un punto interrogativo in questo splendido album. Una piccola spia, una prova quantitativa dell’irrequietezza che pulsa nella testa di Dev Hynes: partito dalla nativa Inghilterra appena 21enne, al termine dell’esperienza con la […]

Fatevi un giro su Genius (o altri siti che archiviano testi) per verificare di persona il numero di frasi che si chiudono su un punto interrogativo in questo splendido album. Una piccola spia, una prova quantitativa dell’irrequietezza che pulsa nella testa di Dev Hynes: partito dalla nativa Inghilterra appena 21enne, al termine dell’esperienza con la band punk-dance Test Icicles, trova sistemazione negli Stati Uniti per mettere al mondo prima Lightspeed Champion – progetto indie-folk simpatico, ma tutto sommato archiviabile senza che nessuno ce ne voglia – e infine Blood Orange, attraverso il quale rovescia benzina sul fuoco del, già ben vispo, nuovo R&B. In Freetown Sound, le personali peregrinazioni stilistiche e geografiche sono messe in parallelo al viaggio che ha portato i suoi giovani genitori a Londra, tanti anni prima, in cerca di una nuova vita: la madre dalla Guyana, il padre dalla Sierra Leone. Ed è un percorso iniziatico, emozionante e a tratti dolente, che disseziona gli elementi fondanti del suo essere artista, ma ancor prima, del suo essere umano: il colore della pelle, la tensione religiosa, il sesso. Le figure che popolano il tragitto sono le più diverse: si passa da Sant’Agostino, vescovo e teologo berbero – che sorprende sentir nominare fuori da un’aula universitaria, figurarsi immaginarlo come titolo per uno dei brani più vicini alla pista da ballo – fino a Venus Xtravaganza, performer transgender newyorkese che in un campionamento tratto dal film culto sulla scena ballroom anni ’80 (Paris Is Burning) spiega – in termini schietti, ma non per questo meno puntuali – la maniera in cui il dominio patriarcale grava tanto sulle sex worker come lei, quanto sulle mogli di famiglie perbene in sobborghi perbene. Ecco, dicevamo gli ’80: sono il punto di riferimento assoluto per la musica di Freetown Sound; non nella versione anfetaminica e laccata che, quasi inevitabilmente, emerge quando le musiche da club fanno l’occhiolino alla moda e alle ristrette cricche del privilegio, dalla spompata stagione electroclash in poi.No, qui ci posizioniamo nella seconda metà del decennio con sconfinamenti in quello seguente: certamente a fare da spirito guida c’è il Principe di Minneapolis, che regola il falsetto sognante e complica i ruoli convenzionali maschile e femminile; c’è Quincy Jones, che, addomesticando i bassi, era riuscito a trasformare la tardissima disco in una macchina cibernetica ibrida e appetibile, una caramella disponibile per il pubblico del pop in senso lato (in copertina e in diversi brani, But You in primis, fanno capolino tic vocali e arrangiamenti che evocano il Michael Jackson maturo); ci sono ritmiche che alludono a musiche dell’Africa dell’Ovest pur scansando con risolutezza qualsiasi retrogusto di esotismo. C’è, soprattutto, l’eco di tanto materiale generico. Suoni inerti, sedimentati nelle nostre memorie, familiari, ma impossibili da ricondurre a un autore o a una canzone specifica: chitarrine funky, sassofoni che gigioneggiano facendo da contrappunto alle parti vocali, percussioni metronomiche che ti tele-trasportano al crocevia tra 1988 e 1989, assoli melodici di chitarra elettrica innestati su orchestre simulate da sintetizzatori vintage. Terribile, no? Esattamente il contrario. Dev è prodigioso: usa i suddetti elementi vernacolari come mattoncini per costruire una reggia, un’architettura inespugnabile che svela la sua meraviglia, passo dopo passo. Contrariamente a quanto succede nella quasi totalità del mainstream contemporaneo, Freetown Sound non è pensato per tracce singole, ma costruisce al termine di un quieto lavoro cumulativo un’entità infinitamente più seducente delle già ottime porzioni che la compongono.Nessun problema: ascolteremo più volte, fischietteremo l’angelica frase tormentone: “You chose to fade away with him / I chose to try and let you in” sui tram senza rendercene conto e, tra sei mesi, lo includeremo tra i dischi dell’anno.

Fatevi un giro su Genius (o altri siti che archiviano testi) per verificare di persona il numero di frasi che si chiudono su un punto interrogativo in questo splendido album. Una piccola spia, una prova quantitativa dell’irrequietezza che pulsa nella testa di Dev Hynes: partito dalla nativa Inghilterra appena 21enne, al termine dell’esperienza con la band punk-dance Test Icicles, trova sistemazione negli Stati Uniti per mettere al mondo prima Lightspeed Champion – progetto indie-folk simpatico, ma tutto sommato archiviabile senza che nessuno ce ne voglia – e infine Blood Orange, attraverso il quale rovescia benzina sul fuoco del, già ben vispo, nuovo R&B. In Freetown Sound, le personali peregrinazioni stilistiche e geografiche sono messe in parallelo al viaggio che ha portato i suoi giovani genitori a Londra, tanti anni prima, in cerca di una nuova vita: la madre dalla Guyana, il padre dalla Sierra Leone. Ed è un percorso iniziatico, emozionante e a tratti dolente, che disseziona gli elementi fondanti del suo essere artista, ma ancor prima, del suo essere umano: il colore della pelle, la tensione religiosa, il sesso. Le figure che popolano il tragitto sono le più diverse: si passa da Sant’Agostino, vescovo e teologo berbero – che sorprende sentir nominare fuori da un’aula universitaria, figurarsi immaginarlo come titolo per uno dei brani più vicini alla pista da ballo – fino a Venus Xtravaganza, performer transgender newyorkese che in un campionamento tratto dal film culto sulla scena ballroom anni ’80 (Paris Is Burning) spiega – in termini schietti, ma non per questo meno puntuali – la maniera in cui il dominio patriarcale grava tanto sulle sex worker come lei, quanto sulle mogli di famiglie perbene in sobborghi perbene. Ecco, dicevamo gli ’80: sono il punto di riferimento assoluto per la musica di Freetown Sound; non nella versione anfetaminica e laccata che, quasi inevitabilmente, emerge quando le musiche da club fanno l’occhiolino alla moda e alle ristrette cricche del privilegio, dalla spompata stagione electroclash in poi.

No, qui ci posizioniamo nella seconda metà del decennio con sconfinamenti in quello seguente: certamente a fare da spirito guida c’è il Principe di Minneapolis, che regola il falsetto sognante e complica i ruoli convenzionali maschile e femminile; c’è Quincy Jones, che, addomesticando i bassi, era riuscito a trasformare la tardissima disco in una macchina cibernetica ibrida e appetibile, una caramella disponibile per il pubblico del pop in senso lato (in copertina e in diversi brani, But You in primis, fanno capolino tic vocali e arrangiamenti che evocano il Michael Jackson maturo); ci sono ritmiche che alludono a musiche dell’Africa dell’Ovest pur scansando con risolutezza qualsiasi retrogusto di esotismo. C’è, soprattutto, l’eco di tanto materiale generico. Suoni inerti, sedimentati nelle nostre memorie, familiari, ma impossibili da ricondurre a un autore o a una canzone specifica: chitarrine funky, sassofoni che gigioneggiano facendo da contrappunto alle parti vocali, percussioni metronomiche che ti tele-trasportano al crocevia tra 1988 e 1989, assoli melodici di chitarra elettrica innestati su orchestre simulate da sintetizzatori vintage. Terribile, no? Esattamente il contrario. Dev è prodigioso: usa i suddetti elementi vernacolari come mattoncini per costruire una reggia, un’architettura inespugnabile che svela la sua meraviglia, passo dopo passo. Contrariamente a quanto succede nella quasi totalità del mainstream contemporaneo, Freetown Sound non è pensato per tracce singole, ma costruisce al termine di un quieto lavoro cumulativo un’entità infinitamente più seducente delle già ottime porzioni che la compongono.

Nessun problema: ascolteremo più volte, fischietteremo l’angelica frase tormentone: “You chose to fade away with him / I chose to try and let you in” sui tram senza rendercene conto e, tra sei mesi, lo includeremo tra i dischi dell’anno.

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