Benvenuti nel medioevo digitale di Vinicio Capossela | Rolling Stone Italia
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Benvenuti nel medioevo digitale di Vinicio Capossela

Il miglior cantautore italiano torna con il nuovo album ‘Ballate per uomini e bestie’, lavoro tra sacro e profano dove le pestilenze e i condannati a morte diventano selfie, haters e influencer

Che Vinicio Capossela sia da tempo immemore uno dei migliori cantautori in circolazione, è tanto ovvio quanto ormai riduttivo. Così come sarebbe banale, se non addirittura svilente, per Vinicio Capossela limitarsi a fare semplicemente un disco come fanno tutti, con una decina di canzoni, qualche ritornello efficace, melodie il più possibile orecchiabili, buoni arrangiamenti.

No, sarebbe troppo poco e se fosse così, Vinicio Capossela non sarebbe Vinicio Capossela, che più che fare dei dischi incide delle enciclopedie musicate. Tra questi giganteschi tomi impolverati, limitandoci solo all’ultimo decennio, troviamo manuali illustrati su mostri marini, racconti delle imprese dei pirati, la salsedine dei sette mari e le epopee di conradiana memoria di Marinai, profeti e balene, seguito da Rebetiko Gymnastas, un agevolissimo corso intensivo di greco antico diviso in tredici audio-lezioni, infine un doppio manuale di geografia, etnografia, enogastronomia e mitologia dell’Irpinia: Canzoni della cupa. A distanza di due anni da quest’ultimo, esce Ballate per uomini e bestie un raccolta di summae medievali dedicate ai diseredati, ai poveracci, ai condannati a morte, ai poveri cristi.

L’attività pedagogica di questo album inizia già dalle primissime note, con la descrizione dell’Uro, il bovino estinto, simbolo delle prime rappresentazioni rupestri risalenti al paleolitico, ma presenti anche nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R. R. Martin, qui protagonista della traccia di apertura che ci introduce subito all’immaginario bucolico e appunto medievale, tetro e antigienico in cui si muovono i personaggi di questo album, alle prese con la peste, con riti apotropaici e pozioni magiche tutte magistralmente cantate, recitate, musicate e soprattutto prodotte magistralmente, con il più autentico folk-barocco, fumoso e circense, tipico di Capossela.

Cantilene, cantici, ballate e filastrocche che parlano di preti, insetti, di malati e lazzaretti, di sacro e di profano con il solito vasto assortimento di strumenti tradizionali, cori e il supporto dell’Orchestra Nazionale della Radio Bulgara, e di un’altra sfilza di partecipanti e collaboratori, tra cui Teho Teardo, Marc Ribot, Daniele Sepe, Jim White, Massimo Zamboni.

Poi però c’è anche tanto presente. Nel 2009 uscì un saggio intitolato Digital Folklore che anticipò di parecchi anni l’attuale dibattito sul cosiddetto “medioevo digitale”: dalla nascita di una cultura popolare su internet all’avvento di una nuova dark age, che sarà digitale, come si legge in New Dark Age: Technology and the End of the Future di James Bridle, prossimamente tradotto anche in Italia. Vinicio Capossela non usa mezzi termini al riguardo: si tratta di una peste, l’ondata di livore online, di selfie e di futili apparenze virali proprio come una pestilenza, «let’s tweet again» in un mondo gentrificato e barbarizzato, in cui è impossibile mantenere l’anonimato e c’è il rischio di contrarre l’influencer, altro che atra mors. Il peggio deve ancora arrivare.

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