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Beck, la perfezione pop di ‘Colors’

Il cantautore statunitense torna con un disco di canzoni pulite senza tempo, tra Beach Boys e Daft Punk, tra Scientology e nostalgia 90's
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Le canzoni di Beck aspirano a vivere in una specie di tempo originario. Oppure, per usare una metafora meno oscura, a volare verso un “Settimo Cielo / Lontano da questo mondo” (come il titolo e il ritornello di una delle canzoni di questo disco), poco sotto il Divino. E noi con loro.

A questo tempo originario appartengono le canzoni dei Beatles (qui citati ampiamente in Dear Life), e Prince (che consegnò annoiatissimo un – simbolico? – Grammy Award nella mani di Beck due anni fa). Beatles e Prince sono i nocchieri che quel tempo ce lo hanno fatto esplorare, avendone nostalgia, aprendo strade e sentieri anche per dire ai Tears for Fears, ai Police e agli Steely Dan, probabilmente ai Daft Punk e Lucio Battisti per essere un poco più prosaici e citare le stesse citazioni di Beck Hansen. Canzoni che – aggiunge ancora Beck – “non sono retrò e neppure moderne”. Figlie di un tempo nel quale non esistono più il dolore e neppure la Storia. In cui Donald Trump non è pertinente. Non pervenuto.

“Canzoni che ti rendono felice di essere vivo”, dice ancora il musicista 46enne presentando il lungo lavoro di questo Colors, in gestazione due anni dopo il Grammy a Morning Phase. Lavoro di disarmante semplicità. Quindi canzoni “perfette” secondo uno dei sogni più raffinati e diabolici della cultura pop del Novecento. E pure con quel tocco di distopia orwelliana che della felicità è il quasi necessario rovescio (chiedere conferma per questo a David Bowie e al glam rock). “Voglio essere libero / Niente mi costringerà nel mio mondo”, proclama ancora Beck di fronte all’intossicazione da sogni, soldi e peccati che poi – sempre secondo il testo di Dreams – è tutto il “niente” che oggi abbiamo.

Il rovescio è questo: sia che indichino il Settimo Cielo, sia che rappresentino un punto di arrivo nella scrittura di Beck, bisognerebbe immaginare queste canzoni di felicità matrimoniale e rilassata ricerca personale come un esercizio preliminare di Chiarezza. Going clear lo diceva Ron Hubbard, battezzando il percorso di liberazione dalla negatività promesso dalla sua Scientology. L’appartenza del cantante più intelligente e originale della sua generazione alla setta più inquietante e californiana di tutte è una di quelle circostanze che si tendono a far scivolare sotto il tappeto. Polvere fastidiosa, segno inequivocabile di eccentricità, chissenimporta poi. Ma non è un segreto. E da parecchio tempo.

Non so perchè non posso avere quel che voglio / Provo a trovare la nostra vita / Attraverso gli anni perduti / Ora il giorno ci porta tutto qui”, canta Beck in Colors, come un Brian Wilson riletto dai Daft Punk. Cosa saranno quegli anni perduti? Perduti da quale pianeta, in quale vita? È come se partecipassimo grazie a lui a una seduta di reviviscenza e cancellazione dei traumi, il famigerato audit – l’analisi scientologa. Costosissima. Appena appena cialtrona: come i ragazzi che in una via del centro di Milano ti abbordavano per prometterti non so quale felicità al prezzo di un questionario. Canta ancora Beck in Wow: “È la tua vita / Devi provare a farla andare per il verso giusto / Guardati attorno / Non dimenticarti da dove provieni”. Qui il tono è quello dell’hip-hop affogato in un arrangiamento anni ‘90. Venere? Saturno?

Motivi di famiglia. Il matrimonio con l’attrice Melissa Ribisi perché i due sono cresciuti entrambi nel milieu culturale losangelino degli anni ‘70, frikkettone e svagato tanto da essere facile preda dei deliri di Hubbard (come dimostra il meraviglioso film di Paul Thomas Anderson, e svariati documentari-scandalo sulla faccenda). Beck aveva un padre e una madre ben dentro la setta. Ma aveva anche un nonno artista dada-fluxus amico di John Cage, famoso per tirare i pianoforti giù dal quinto piano. E mamma che ha fatto parte a suo tempo della Factory di Andy Wahrol. E se anche Scientology non c’entrasse niente, la “perfezione” delle sue canzoni coincide più o meno con il pop anni ’90-’00, prima della rivoluzione dell’industria discografica. Motivi anagrafici, diciamo così. Che sarebbero, però, ben deludenti per altri, nonostante tutto.

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