Band Of Horses - Why Are You Ok | Rolling Stone Italia
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Band Of Horses – Why Are You Ok

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In quest’epoca malata, schiacciata dalla celebrazione, continua di un passato sempre più prossimo, qualche mese fa si è festeggiato addirittura il decennale di un disco (e in particolare di una canzone, The Funeral) in teoria marginale per il destino della musica tutta. Eppure a quel primo album dei Band of Horses sono rimasti legati in molti e in molti attendevano, non senza un briciolo di paura, l’avvicinarsi di questa loro nuova fatica discografica. Sempre in bilico tra emotività indie e vocazioni mainstream, Ben Bridwell e soci provano questa volta a lasciarsi alle spalle il quasi passo falso di Mirage Rock (il disco che per certi versi avrebbe dovuto lanciarli nel “giro grosso”) e si riappropriano del loro passato – eccoci – scegliendo in qualità di produttore artistico un vero e proprio cult hero dell’indie rock americano: Jason Lytle dei Grandaddy. Già, i Grandaddy. Se li ricorda qualcuno? C’è stato un momento, tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del Terzo Millennio, in cui il suono dei Grandaddy rappresentava il suono indie per eccellenza: una via di mezzo tra lo scazzo dei Pavement, i power chord del punk californiano (Lytle è un fissato di skateboard) e l’elettronica da modernariato. Se i Radiohead erano il MacBook Pro, i Grandaddy sono stati il Commodore 64 ed è proprio il recupero di questo approccio casalingo a certe sonorità la chiave per capire dove vuole andare a parare Why Are You Ok. Perché, se nella scrittura di Bridwell è insita una certa voglia di epica grandiosità, il basso profilo di cui Lytle è portatore sano crea uno strano ma vivace contrasto. In pratica i Band of Horses riscoprono loro stessi e le loro radici (sempre molto legate alla tradizione rock Usa), lasciandosi alle spalle la volontà di dover svoltare a tutti i costi e risultando di fatto più onesti e incisivi che nel recente passato. La voce di J Mascis che fa capolino in In a Drawer è lì proprio per ricordarci da dove vengono e quale sia il loro mondo di riferimento. E sì, magari il Grammy non lo sfioreranno più, ma di sicuro sembrano essere più a loro agio nel vestire questi panni qui e non quelli del gruppo condannato a fare il botto per forza.

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In quest’epoca malata, schiacciata dalla celebrazione, continua di un passato sempre più prossimo, qualche mese fa si è festeggiato addirittura il decennale di un disco (e in particolare di una canzone, The Funeral) in teoria marginale per il destino della musica tutta. Eppure a quel primo album dei Band of Horses sono rimasti legati in molti e in molti attendevano, non senza un briciolo di paura, l’avvicinarsi di questa loro nuova fatica discografica. Sempre in bilico tra emotività indie e vocazioni mainstream, Ben Bridwell e soci provano questa volta a lasciarsi alle spalle il quasi passo falso di Mirage Rock (il disco che per certi versi avrebbe dovuto lanciarli nel “giro grosso”) e si riappropriano del loro passato – eccoci – scegliendo in qualità di produttore artistico un vero e proprio cult hero dell’indie rock americano: Jason Lytle dei Grandaddy. Già, i Grandaddy. Se li ricorda qualcuno? C’è stato un momento, tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del Terzo Millennio, in cui il suono dei Grandaddy rappresentava il suono indie per eccellenza: una via di mezzo tra lo scazzo dei Pavement, i power chord del punk californiano (Lytle è un fissato di skateboard) e l’elettronica da modernariato. Se i Radiohead erano il MacBook Pro, i Grandaddy sono stati il Commodore 64 ed è proprio il recupero di questo approccio casalingo a certe sonorità la chiave per capire dove vuole andare a parare Why Are You Ok. Perché, se nella scrittura di Bridwell è insita una certa voglia di epica grandiosità, il basso profilo di cui Lytle è portatore sano crea uno strano ma vivace contrasto. In pratica i Band of Horses riscoprono loro stessi e le loro radici (sempre molto legate alla tradizione rock Usa), lasciandosi alle spalle la volontà di dover svoltare a tutti i costi e risultando di fatto più onesti e incisivi che nel recente passato. La voce di J Mascis che fa capolino in In a Drawer è lì proprio per ricordarci da dove vengono e quale sia il loro mondo di riferimento. E sì, magari il Grammy non lo sfioreranno più, ma di sicuro sembrano essere più a loro agio nel vestire questi panni qui e non quelli del gruppo condannato a fare il botto per forza.

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