‘After Hours’: il nuovo The Weeknd, un po’ dark e un po’ Eighties, ci spiazza due volte | Rolling Stone Italia
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‘After Hours’: il nuovo The Weeknd, un po’ dark e un po’ Eighties, ci spiazza due volte

Prima colorando il suo pop danzereccio e cantabile a squarciagola di tinte più cupe, e poi seppellendo la vena intimista che ci aveva fatto innamorare di lui sotto tonnellate di synth

Abel Tesfaye in arte The Weeknd

Foto: Anton Tammi

Pochi artisti possono affermare di avere inventato da zero un sottogenere musicale, e forse una di questi pochi è Abel Tesfaye, in arte The Weeknd. La superstar canadese di origini etiopi aveva debuttato nel 2011 con una strepitosa serie di tre mixtape autoprodotti, House of Baloons, Thursday e Echoes of Silence, che in buona parte divennero le solide fondamenta su cui poggia il cosiddetto contemporary R&B, un sound ispirato alla musica nera ballabile e commerciale degli anni ’90, ma ben più dark, rarefatto, etereo e ossessivo. Insieme a nomi come Frank Ocean, SZA, Daniel Caesar, The Internet e tanti altri, oggi ben noti a chi ascolta black music, ha creato un immaginario che prima non c’era e alcune delle sonorità più interessanti del decennio appena trascorso.

Il problema delle persone particolarmente inventive, però, è che in genere non si accontentano di incanalare la loro creatività in una sola direzione. A volte questo spaziare può portare a risultati eccellenti, a volte meno. Nel caso di The Weeknd, c’è una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che i suoi successivi esperimenti sono stati un successo, basti pensare a hit come la travolgente Can’t Feel My Face del 2015 – che in Italia è passata alla storia come una canzoncina ballabile e innocente degna del primo Michael Jackson, ma che in realtà pare essere dedicata alla cocaina: provate a rileggere sotto questa luce i versi “I can’t feel my face when I’m with you / but I love it” (non sento la mia faccia quando sono con te / ma lo adoro) – o a Starboy del 2016, con i Daft Punk. Quella cattiva è che la china che ha preso è lontana anni luce dai suoi primi lavori. Nel suo ultimo album After Hours è riuscito a spiazzarci doppiamente. Il pop danzereccio e cantabile a squarciagola dei suoi brani più famosi ha assunto tinte più fosche e sinistre, come è evidente anche dalla copertina, che mostra il suo volto insanguinato e sorridente. E la vena intimista che ci aveva fatto innamorare di lui, anche se non è del tutto scomparsa, è stata seppellita sotto tonnellate di synth anni ’80 e patinate produzioni di grido.

Parte dell’eterogeneità di After Hours si deve all’ampia gamma di produttori e songwriter che hanno collaborato con The Weeknd: dallo storico socio Illangelo (uno dei produttori più quotati nell’ambito del contemporary R&B) a re del pop come Max Martin (lo stesso che scriveva per i Backstreet Boys e Britney Spears) e Oscar Holter (che ha lavorato per Taylor Swift, Carly Rae Jepsen e Charli XCX), da Metro Boomin (l’enfant prodige della più innovativa trap americana) ad artisti d’avanguardia come Kevin Parker dei Tame Impala e Oneohtrix Point Never. Una squadra che in teoria si propone di fondere insieme una serie infinita di sottogeneri e suggestioni, ma che nella pratica non sempre ci riesce. Alcuni brani sono notevoli, come la suggestiva Scared to Live, che cita in maniera magistralmente attuale Your Song di Elton John; in altri riescono nella difficile impresa di ricordare capolavori come My Beautiful Dark Twisted Fantasy di Kanye West, come Faith; ci sono pezzi che arrivano addirittura a trasportarci in un altrove lontanissimo, ad esempio Save Your Tears, che ha un pizzico di french touch in quel suo basso ostinato. Altri, purtroppo, molto più dimenticabili, e i singoli Heartless, Blinding Lights e la title track After Hours sono sì solidi e forti, ma non certo dirompenti, cosa a cui il nostro eroe ci aveva ormai abituato.

Crea disorientamento anche la scelta di dividere la tracklist in due metà quasi opposte: la prima più dilatata e oscura, la seconda talmente anni ’80 nei suoni e negli strumenti che sembra di fare un salto indietro nel tempo. Pare che questa scelta sia funzionale alla narrazione del disco, che secondo le interpretazioni di alcuni fan e critici (non ci è dato di sapere se siano corrette o no, perché come è noto il diretto interessato concede pochissime interviste) racconta una metaforica nottata di bagordi e tormenti a Las Vegas, città nominata in due diverse canzoni, Alone Again e Faith. In generale, comunque, è più probabile che il filo conduttore sia una sua presunta inadeguatezza nel portare avanti una storia d’amore vera e profonda, la sua incapacità di vivere i sentimenti fino in fondo, nonostante abbia tutto nella vita, o forse per colpa di questo. “The house I bought is not a home / together we’re so alone” (La villa che ho comprato non è una vera casa / insieme siamo così soli), dice in Hardest to Love. E la traccia conclusiva, Until I Bleed Out, parla di come vuole abbandonare le sue cattive abitudini, la droga, gli eccessi, ma soprattutto di come vuole dimenticare la persona che non è stato capace di rendere felice: “I wanna cut you outta my dreams / till I’m bleeding out” (voglio tagliarti fuori dai miei sogni / finché non mi dissanguo), ripete nel ritornello. Chissà se si riferisce alla sua tormentata relazione con la supermodella Bella Hadid, a cui è legato a intermittenza da quasi cinque anni. Al di là di tutto, comunque, After Hours è senz’altro un lavoro coraggioso, maturo e sofferto, ma probabilmente non il migliore che The Weeknd abbia mai sfornato.

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