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Abbiamo visto il film che dovrebbe vincere l’Oscar, e quel film è ‘Belfast’

Del ‘memoir mélo’ di Kenneth Branagh si è già parlato moltissimo. Ora arriva in sala, in attesa degli Academy Award…
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Non amiamo fare pronostici sugli Oscar. Nulla contro i giornalisti che invece ne scrivono, ovviamente: ce ne sono alcuni, bravissimi, che sanno renderli un argomento molto appassionante. È solo che, una volta che parte la stagione dei festival e gli Studios (un termine che ormai copre tutto, dalle case di produzione tradizionali alle nuove piattaforme di streaming) iniziano a distribuire titoli che possono attirare l’attenzione della stampa, tutto è troppo semplicemente ricondotto alla domanda: “Questo film arriverà agli Oscar?”. È una prospettiva troppo riduttiva. E osservare tutto attraverso la lente dei “fantastici 4” dell’autunno (Venezia, Telluride, Toronto, New York) significa perdere di vista la maggior parte delle uscite. Tanti grandi film non sono nemmeno presi in considerazione da chi è esperto in Academy Award. Ma chi frequenta i festival non è così miope, sa riconoscere benissimo quando qualcosa sembra destinata a raccogliere i voti dei giurati e lasciare al palo altri possibili candidati.

All’ultimo Festival di Toronto persino noi abbiamo individuato un candidato particolarmente forte alla statuetta di miglior film 2022, se non il vero e proprio vincitore. Belfast, il racconto semi-autobiografico di Kenneth Branagh sulla sua infanzia nell’Irlanda del Nord degli anni ’60, è un notevole cambio di direzione per quello che una volta era considerato “l’erede di Laurence Olivier”, e certamente la cosa migliore che abbia fatto, come regista e sceneggiatore, in anni e anni (con buona pace dei baffi di Hercule Poirot). È una sorta di album dei ricordi, capace di evocare un tempo della Storia, un luogo e una crisi politica ben precisi, ma in una maniera che è del tutto personale. Ed è anche quel tipo di film che i membri dell’Academy premiano molto volentieri. Non stiamo dicendo che Belfast è stato pensato per vincere statuette: per Branagh è un film troppo intimo per essere ridotto solo a questo. Ma il suo misto di solennità, sentimentalismo, ironia, tragedia e una narrazione quasi da giallo è, senza dubbio, un buon lasciapassare per gli Oscar.

È il 1969, e le strade dell’Irlanda del Nord in cui vive Buddy (Jude Hill), un bambino di 10 anni, sono affollate da coetanei che giocano a calcio, vicini che entrano ed escono dalle loro case di mattoni, mamme che chiacchierano sulla porta e che chiamano i loro figli quando il pranzo è pronto. All’improvviso, spunta da un angolo un gruppo di uomini mascherati che lanciano Molotov e incendiano auto. Scoppia il caos, e anche la macchina da presa si muove all’impazzata per seguire quegli uomini in fuga. Arrivano i cingolati dell’esercito. È il “Ground Zero” delle rivolte di quell’agosto, che avrebbero inaugurato la triste ondata di violenza poi diventata sinonimo di Belfast per i decenni a venire. Quei militanti volevano cacciare i cattolici via da quel quartiere a maggioranza protestante. E, per farlo, sarebbero stati disposti a bruciare ogni casa e spaccare le vetrine di ogni negozio.

La famiglia di Buddy è protestante, ma suo padre (Jamie Dornan) lavora per il Governo inglese, che fa di tutta quella comunità un bersaglio. È un lavoro che lo porta spesso lontano dalla famiglia, con grande dispiacere di Buddy, suo fratello e la loro madre (la Caitriona Balfe di Outlander). Per fortuna, la famiglia può contare sull’aiuto dei nonni (Ciarán Hinds e Judi Dench), che, quando non stanno affettuosamente bisticciando tra loro, danno consigli a Buddy su come conquistare la ragazzina per cui ha una cotta. Un’amica più grande, Moira (Lara McDonnell), gli insegna invece come rubare barrette di cioccolato da un negozio di dolciumi. In tv passa Star Trek, Un milione di anni fa è il titolo dello spettacolo del sabato mattina nel cinema locale, i jukebox passano soul irlandese, e un uomo ha appena messo piede sulla Luna. Belfast è il regno di Buddy, il suo posto sicuro, almeno finché non lo sarà più.

È questo il territorio che Branagh vuole esplorare: il terreno fertile su cui la nostalgia incontra la Storia, filtrato attraverso gli occhi di un bambino. Se doveste sintetizzare Belfast con un’unica immagine, scegliereste di sicuro quella di Dornan e Balfe che ballano per strada, sorridendo sulle note di un r’n’b irlandese. È un film che ha ben in mente il senso del Tragico, ma che sa inserirlo in una cornice più ampia, quella che riporta il regista ai sentimenti per la sua terra natale. La violenza non è solo lo sfondo, ma lo strumento più rumoroso tra quelli che Branagh usa per dirigere la sua orchestra. Ed è l’elemento che costringerà la famiglia a lasciare la propria comunità alle spalle. Come Branagh, che si trasferì in Inghilterra con i genitori e i fratelli quando aveva nove anni, anche Buddy prima o poi dovrà dire addio a Belfast. E dovrà dire soprattutto addio alla sua identità irlandese perché, come dice un personaggio, “se tutti fossero rimasti in Irlanda, nel mondo non ci sarebbe neanche un pub”.

Caitriona Balfe, Jamie Dornan, Judi Dench e il piccolo Jude Hill in ‘Belfast’. Foto: Universal Pictures

Le lodi che hanno seguito l’anteprima a Telluride e le successive proiezioni a Toronto sono state unanimi. Così come il confronto con Roma, in parte perché il mix di ironia e dolore nel ricordo dell’infanzia è simile a quello presente nel capolavoro di Alfonso Cuarón, in parte perché anche Belfast è girato in bianco e nero (il raro uso del colore è riservato ai film che Buddy va a vedere: il che suona come un vero e proprio omaggio alla magia del cinema). Alcuni, a suo tempo, dissero che Roma non riuscì a conquistare la statuetta di miglior film agli Oscar perché i membri dell’Academy non erano ancora pronti a far vincere una produzione Netflix o un film che bisognava per forza vedere sottotitolato; per fortuna, dopo Parasite questo non è più un tema.

Ma il film di Branagh non avrebbe neanche questi “limiti”, e riesce ad ottenere lo stesso risultato. E i votanti degli Oscar non potranno non apprezzare certe scelte di colonna sonora (ci sono così tante, ma così tante, canzoni di Van Morrison), i precisissimi dettagli nella ricostruzione storica e la coppia Hinds-Dench. Belfast è un meraviglioso, solido, sorprendente rappresentante di un genere – il “memoir mélo” – che facilmente strega le platee. Il dibattito su questo film è appena cominciato.

Da Rolling Stone USA

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