Che cosa cerchiamo ancora, oggi, nella musica che fu tanto amata dalla controcultura degli anni ’70? Il krautrock tedesco e la psichedelia, il progressive, il folk e il free jazz, il minimalismo di Reich e Riley, la musica classica indiana e tanto altro spuntano a volte nel bagaglio dei musicisti che chiamiamo per comodità “indie” – tra le cose che bisogna assolutamente citare, riscoprire, ri-suonare. Evocazione di uno stato di grazia, di uno spazio illuminato dalla fiammella dello Spirito Santo (apparso nei primi anni ’60 sotto forma di droghe psichedeliche), dove si sapevano parlare tutte le lingue del mondo e della musica senza averne studiata nemmeno una. Un’ambizione così babelica che durò pochissimo. Un eden elettrico praticamente irripetibile, perché la vera ambizione era politica prima che estetica: rivoluzionare la musica per rivoluzionare la vita quotidiana e da lì possibilmente il mondo.
I gemelli Aaron e Bryce Dessner, noti soprattutto per il loro lavoro con i National, musicisti di formazione colta, neo40enni della scena radical-chic di Brooklyn, curano adesso questo omaggio monumentale ai Grateful Dead. È un ricordo della propria formazione adolescenziale da Deadhead, come si chiamano gli adepti del culto di uno dei gruppi più freak, più americani, più eccentrici della storia del rock. E il risultato di un impegno di ben quattro anni commissionato dall’organizzazione anti-Aids Red Hot: 59 canzoni eseguite con grande dedizione filologica da una lista di interpreti che va da Kurt Vile a Lee Ranaldo, dai Grizzly Bear ai Tv On The Radio, a Stephen Malkmus, con puntate nella musica classica contemporanea (yMusic, stargaze, Richard Reed Parry, Terry Riley), nel jazz creativo (Vijay Iyer), persino nel pop centroafricano (Orchestra Baobab, Tal National), e la necessaria partecipazione di un folto gruppo di figli diretti del genere Americana: cantautori come Bonnie Prince Billy, Cass McComb, Angel Olsen, eccetera.
I Grateful Dead fino alla morte di Jerry Garcia hanno fatto sempre genere a sé. Prima che nel blues o nel jazz, e attraverso gli straordinari testi di Robert Hunter, il centro della loro estetica stava nell’esperienza collettiva e diretta dei loro concerti, al punto che gran parte della loro infinita discografia è fatta di registrazioni live. Scrivevano musica con (e dentro) la vita, negli anni in cui lo stesso concetto veniva variamente esplorato dall’aleatorietà cageana, dalla musica improvvisata, oppure negli scontri con la polizia. Più difficile, magari meno entusiasmante fare oggi il contrario: provare cioè a scrivere un barlume di vita attraverso l’analisi critica, la ricompilazione, l’evocazione di una musica che (al contrario di quel che poteva fare Glenn Gould con le griglie matematiche delle partiture bachiane, per dire) scritta non è, la cui cellula generatrice è piuttosto politica e collettiva.
Dunque: perché un omaggio agli anni ’70? Perché ai Grateful Dead? Dice una battuta che Jerry Garcia è stato lo Steve Jobs buono. Evocando quell’antica esperienza di autogestione libertaria, la scena “indie” del giro newyorkese qui rappresentata a tutti i livelli – una scena colta, metropolitana, eclettica per lunga tradizione – sembra rileggere in controluce il dirompente effetto che la Rete in questi anni ha avuto sulla musica e sulle altre dinamiche socioculturali, e provare a ripensare al da farsi. Si tratta di riconoscere tensioni e fratture prodotte dallo smantellamento del mercato discografico tradizionale, con la creazione di comunità e nicchie virtuali al posto dei generi, il ritorno ai concerti, alle performance, lo sconfinamento negli spazi dell’arte e del teatro. E così l’estremo formalismo, retrò e magari hipster, di chi oggi è capace indifferentemente di usare i codici della musica contemporanea accanto a quelli del rock classico americano, si scontra a ogni angolo con i fantasmi di una perduta comunità indie-head. Con la ricerca di qualcuno che ti ascolti davvero, che abbia voglia di parlare la tua stessa lingua.