Viaggio a Matala, dove gli hippie cercavano l'utopia diventando cavernicoli | Rolling Stone Italia
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Viaggio a Matala, dove gli hippie cercavano l’utopia diventando cavernicoli

Nei tardi anni '60 una colonia internazionale di capelloni s'installò in alcune grotte affacciate sul mare di Creta. Li cantò Joni Mitchell in 'Carey'. Questa è la loro storia, tra freak e chic. «Ci sentivamo vicini agli dei»

Viaggio a Matala, dove gli hippie cercavano l’utopia diventando cavernicoli

Matala negli anni '60

Foto: Cretan Magazine

«Mi raccomando: se passi a Creta, evita Matala». Ecco perché tutti ci andavano negli anni ’60. Il monito di adulti e benpensanti è da sempre la segnaletica prediletta da giovani e viaggiatori, figurarsi in un periodo di ebollizione come quello, con una società composta da più giovani, più istruiti, più liberi di muoversi, più consapevoli, e in dissenso con la generazione precedente, conformismo e consumismo. Nel 1966 in America si registrava un boom di minorenni fuggiti dalle case della borghesia per le avventure di strada. Via dal regime degli esperti che proponeva un destino aziendale, militare, governativo, accademico, tecnocratico, basato su numeri, efficienza e produttività. In Europa il Grande Rifiuto generava un’orda di diecimila capelloni diretti a Oriente, per conoscere, o tentare di realizzare, un sistema che poggiasse su altri valori.

Creta era una tappa per chi andava o tornava da Nepal, India, Afghanistan. In particolare attraeva il villaggio di pescatori Matala, già approdo di Ulisse, venti case in tutto, e una rete di grotte sul mare risalenti al Neolitico, usate come tombe dai cristiani, lebbrosario, deposito di munizioni nella Seconda guerra mondiale, e poi provvidenzialmente libere. In ogni guida si legge che Bob Dylan, Cat Stevens, Janis Joplin e Leonard Cohen vissero lì dentro. Invenzioni fruttuose. Solo Joni Mitchell fece davvero quell’esperienza e la rese immortale nel brano Carey. Per raccontarla però bisogna fare un passo indietro, rigorosamente scalzo.

La spiaggia di Matala. Foto: Wolfgang Kistler

Ben prima degli hippie, c’erano stati i figli dei fiori. Sembrano sinonimi ma la gente del posto fa distinzione, come fra chi è a modo e a chi alla moda. I primi, arrivati alla spicciolata nel 1958, li descrivono molto riservati, rispettosi, in cerca di un contatto con la natura. Tipi colti e benestanti, tant’è che l’unica banca che operava nel vicino paese di Mires non riusciva a far fronte al cambio di valuta. Spendevano e la sera imparavano passi di zeibekiko dai locali. Nelle grotte dormivano un lord inglese, un futuro docente di greco a Cambridge, un professore universitario italiano. Fu riconosciuto da un suo ex studente, che aveva bocciato tre volte agli esami. Lì il prof passeggiava con bastone e collana di conchiglie ed era soprannominato Diavolos, una scritta che ha resistito nelle grotte, oggi recintate e con ingresso a pagamento. I secondi, la specie “hippie” (una semplificazione, in quanto era un gruppo disomogeneo), giunse in massa un decennio dopo, con un appellativo coniato solo nel 1965 e un atto di nascita ufficiale a San Francisco nel 1967. Occupò ogni buco della scogliera creando una colonia indipendente e si presentò con in tasca la minacciosa guida L’Europa con 5 dollari al giorno.

Tra i primi greci a seguire il vento nuovo fu il pescatore Manoli, che nel 1964 si trasferì in caverna, con zanzare, galline e fidanzata americana. Stava accanto al francese Jean, che come tanti affida i ricordi a un sito olandese, e ci tiene a specificare: «Non eravamo hippie, ma esploratori e beatnik. Erano i cretesi a darci l’esempio di un altro stato mentale: fiero, autentico, essenziale, e un po’ folle, come può esserlo un posto dotato di una speciale luce che ti fa sentire vicino agli dei». Ancora oggi, la prima cosa che si nota sulla spiaggia, è la frase: “Life Is Today. Tomorrow Never Comes”. A scriverla non fu un ragazzino della classe media americana che poteva tornare in villa dopo aver giocato all’uomo preistorico, ma il pescatore Georgios Germanakis, un’istituzione locale. Fino all’ultimo potevi incontrarlo in giro, con un fiore fra i capelli. Quarant’anni fa insegnò a governare l’amo ai nuovi inquilini delle caverne e a conservare il pesce con il sale a chi non aveva mai fatto a meno del frigorifero.

Non c’era corrente elettrica, ci si lavava alla pompa comune e di notte facevano luce le lampare dei pescherecci messe sul tavolo dell’unico bar, la taverna Delfini. Nel 1967 arrivò nelle grotte il tedesco Arn Strohmeyer, giornalista e scrittore del libro finora più ricco di foto e aneddoti The Myth of Matala. Sua l’idea di radunare gli ex cavernicoli e organizzare il Matala Beach Festival che dal 2011 si tiene con successo ogni anno a giugno. E già nel 1967 la frequentazione stava mutando: freak e chic, autostoppisti, eremiti, artisti, esibizionisti, rifugiati politici, reduci dal Vietnam traumatizzati, fannulloni, idealisti, opportunisti, introspettivi, casinisti. Una forza internazionale mista, alla ricerca di un’altra struttura sociale. Non c’era niente, si poteva avere tutto.

Dal Regno Unito giunsero le sorelle Pam e Shirley, in grado di fornirci la mappa dettagliata degli appartamenti nella roccia: al primo piano l’Hilton, dotato di più stanze, e la Grotta 1, suite con vista panoramica sulla baia. Poi la Kazantzakis, perché sul muro campeggiava la frase del poeta cretese Nikos Kazantzakis: “Non spero nulla. Non temo nulla. Sono libero”. La più lontana era la “shit cave”, la più storica la Brutospeliana, si diceva fosse stata frequentata dal generale romano Bruto. Le sorelle conquistarono il quarto piano: una stecca di bambù per appendiabiti, una tomba per letto e due candele. I loro vicini: un pittore canadese, uno studente di filosofia svizzero, un reduce della guerra franco-algerina. Qualcuno la soprannominò Globe City.

Matala nel 1966. Foto: Wolfgang Kistler

Il tempo si passava a vivere. Di giorno mare e bucato, alla sera chitarre e conversazioni filosofiche. Ogni tanto anche i giovani soldati greci si sedevano a fumare hashish. Se finivano i soldi, ci si arruolava per la raccolta di pomodori, olive e uva, per un dollaro al giorno. Qualcuno guadagnava andando a donare il sangue. Chi accolse gli hippie sin dall’inizio, chiamandoli “i miei bambini”, fu Mama, la signora Zourithakis proprietaria della panetteria. La sua Bakery è ancora lì, gestita dagli eredi. Faceva credito, sapendo che non avrebbe rivisto i soldi, e fungeva da ufficio postale. Accanto alla cassa, teneva un bicchierino per le offerte: una dracma per gli hippie bisognosi. Qualcuno non gradiva la loro presenza. In verità, non risulta ci sia mai stata frizione fra autoctoni e visitatori. Erano uniti dal desiderio di una vita in pace, dove non si respirava aria di guerra, né quella fredda né quella sporca. Però, la sproporzione preoccupava. Troppi forestieri e licenziosità. L’evasione degli uni era percepita come invasione da altri. Soprattutto da quel 1967, quando a Creta iniziò la Dittatura dei Colonnelli, la Giunta militare che spazzò via ogni democrazia e punì la libertà di espressione. Se chiudeva un occhio, era solo per non perdere gli incassi.

Lo sciame aumentava, per motivi diversi: curiosità, voglia di libertà, Shangri-La, necessità. Ad esempio molti studenti inglesi, a corto di sterline, finivano lì in estate. Per legge erano autorizzati a portarne all’estero solo una cinquantina. La cifra decideva destinazione e tipo di residenza, così ragazze come Barbara e Margaret alloggiarono scomodamente ai piani alti della scogliera. A Matala si aspettava il bus, che insieme alle lettere scaricava nuovi cercatori con zaino in spalla, dirottati lì dal passaparola. Così fu per l’allora diciottenne Candy, dall’Ohio, accompagnata da due amiche: «Era l’aprile 1968, come tutti avevamo fatto l’Eurail Pass e dormivamo sui treni. Ci ritrovammo in mezzo alla rivolta studentesca a Parigi. Noi tre, ingenue vergini del Midwest, arrivammo a Matala, il giorno in cui fu ucciso Martin Luther King. Il jukebox della nave suonava i Jefferson Airplane. Occupammo una grotta, con ragazzi conosciuti a bordo. Tornammo a casa durante i funerali di Bob Kennedy». Il clima era questo.

Gli hippie infastidivano di sicuro il vescovo ortodosso Timotheos che, per demonizzarli, il 25 giugno 1968, commise un errore fatale sotto forma di circolare: «Noi cretesi siamo ospitali ma la gente che ora è arrivata a Matala non ha Dio, patria, valori. Donne volgari la sera si denudano e vendono i corpi. Si fanno orge, le malattie veneree si stanno diffondendo. Vanno subito prese misure adeguate». Il risultato fu un’impennata di visite. A partire dagli stessi greci che, incuriositi dai “trogloditi” (la stampa locale li anche definiva così), la domenica andavano a rifornirli di sigarette e cibo. Li avevano immaginati come ricchi figli di Hollywood e non si spiegavano perché ambissero a un posto che nemmeno il greco più miserabile avrebbe scelto per casa. All’ingresso delle grotte si aggiunse la scritta: “Scusate, oggi niente orge”. Mama li difese dalle accuse di immoralità e non fu l’unica. L’inglese Pam, che tornò per tre estati consecutive, ci scrive a proposito delle visite di anziane del paese: «Venivano a trovarci. Tenevamo le grotte pulite e ordinate. Ai visitatori offrivamo tè e biscotti. Vedevano che non c’era promiscuità all’interno, solo giovani tranquilli, spesso coppie».

Matala nel 1968. Foto: Candy, da Cincinnati

Un mese dopo la circolare, e grazie alla stessa, il 19 luglio 1968 fu il settimanale americano Life a rendere Matala famosa nel mondo, pubblicando il reportage di Thomas Thompson, con le foto di Denis Cameron. Dieci pagine dal titolo “Creta: una tappa della Nuova Odissea”, protagonisti un centinaio di nomadi americani all’estero, fra single, neosposi e famiglie con figli. Il giornalista era scioccato perché i suoi intervistati non piangevano per la morte di Bob Kennedy. E sapevano anche il perché: l’America li aveva abituati alla violenza, spediti al macello in un posto chiamato Vietnam che neppure sapevano indicare sulla cartina, cercavano una dimensione più umana e non ragionavano più come se gli Stati Uniti fossero l’epicentro del mondo. La sera, attorno al fuoco, cantavano I Can’t Help But Wonder Where I’m Bound di Tom Paxton. Non posso far altro che chiedermi a cosa sono legato. E poi, si sentivano al sicuro. A nessuno sarebbe venuto in mente di gettare una bomba su Creta.

Da Life in poi, fricchettoni a vagonate. Il paradiso perduto. La groviera d’arenaria brulicava e diventò difficile trovare una sistemazione: i novelli in cima, i veterani ai piani bassi, i ritardatari imbozzolati nel sacco a pelo sulla sabbia. In estate la popolazione arrivò a mille, tra lì e la più nascosta Red Beach. Si condividevano frittata di patate, feta, retsina e le gioie della semplicità. Alcuni restavano giorni, altri mesi. Il ricambio era continuo e dal tipo di condominio dipendeva l’andazzo: placido e decorso o scroccone e indecente. Se capitavano gli hippie che danzavano per stampa e turisti in cambio di dracme, o il milionario greco che ormeggiava lo yacht per invitarli a bordo, Globe City si trasformava in zoo.

La taverna Delfini fu rimpiazzata dal Mermaid Café, specialità: torta di mele e vino rosso. Gli hippie erano più che benvenuti dal gestore Stelios Xagorarakis. Ancora oggi li definisce anime benedette. Possedeva un generatore e un giradischi e l’australiana Barvara ricorda in particolare la sera del 26 settembre 1969: qualche folle comprò Abbey Road a Londra, volò ad Atene e si imbarcò per Creta, con la missione di far ascoltare agli altri delle grotte il disco dei Beatles il giorno stesso in cui era stato pubblicato. Gli italiani abbondavano e alcuni sono impressi nelle memorie: Bruno officiava paganissimi matrimoni, il poeta René amava esagerare di cilum.

L’interno di una grotta, oggi. Foto: Simona Orlando

Joni Mitchell arrivò sull’isola tardi, nel febbraio 1970, con un dulcimer da accordare e l’amore per Graham Nash da scordare. Non aveva una meta precisa né l’aspetto di una greca. Al passaggio la indicavano: “Hippie, hippie, vai a Matala”. Non se lo fece ripetere. Quasi subito incontrò Cary, esuberante cuoco dai capelli rossi, e al terzo giro di raki si ritrovò ad abitare nella sua grotta. Per il suo compleanno, il 19 aprile, gli regalò la canzone Carey, inclusa in Blue del 1971. Joni era già famosa, la sera suonava al Mermaid, dove Stelios a un certo punto fu prelevato dalla polizia e portato in prigione per attività sovversiva. Negli stessi giorni, la produzione greca di Hair andò a reclutare il suo colorito cast a Matala, Joni e Cary videro il musical ad Atene e lei non tornò più indietro. Aveva già anticipato tutto nel brano: il vento africano, il Mermaid Café dove cantava per freak e soldati, le unghie sporche, la cupola stellata, il rock‘n’roll graffiato del giradischi, ma soprattutto la nostalgia per le lenzuola di lino pulite e la raffinata colonia francese. Preferì il lusso di Laurel Canyon e dirimpettai come Jim Morrison e Frank Zappa.

I raid militari si fecero più frequenti e nel maggio 1970 in 200 furono evacuati. Le grotte vennero dichiarate zona archeologica ma molti non si scoraggiarono e tornarono, accontentandosi di dormire sotto gli ulivi. Con i rampanti anni ’80 l’utopia fu monetizzata: d’improvviso nelle caverne c’era stato anche John Lennon. Matala resta una destinazione da non perdere, con un suo forte magnetismo, ma della storia che l’ha resa famosa sono rimasti i simboli di pace amore sulle magliette in serie. Uno Zalone chiederebbe: «Della Flower Power fate anche i borselli?».

Gli abitanti sembrano quasi vergognarsi della reputazione di ex colonia hippie, pur sfruttandola in ogni modo. L’immagine più eloquente è il maggiolone piazzato davanti al bancomat. Se si vuole stare defilati, bisogna spostarsi di quattro chilometri, alla naturista Komos, dove lo spartano bar Karibou offre amache e silenzio. Il buon Stelios, che faceva esibire la Mitchell al suo locale e la andava a trovare in grotta per ungerle la voce di vino resinato, ha seguito il cammino hippie a ritroso, dopo aver scontato due anni di galera per il suo impeto rivoluzionario: si è trasferito in California, ha una catena di cibi bio e costruisce pozzi in Africa. È andata così: chi ha ceduto al sistema che combatteva e chi ha accettato di entrarci per contaminarlo con i suoi ideali. Per tutti, indistintamente, fu un’esperienza trasformativa. Difficile rintracciare chi c’era. Nessuno usava il nome vero: il tizio con la barba era Nettuno, Eric il danese divideva la grotta con l’afghano Fuji e il Buzz rientrato da Saigon. Alcuni si cercano, si raccontano sul sito dell’olandese Elzo Smid e si riuniscono durante il festival. Non amano il mito di Matala perché per loro fu realtà, per quanto a scadenza. Mimetizzati fra i turisti, quei ragazzi dei ’60 sospinti da sogni grandiosi, tornano ma senza farsi notare, con storie di magia diventata nostalgia.