Si scrive “revenge porn”, si legge “sessismo” | Rolling Stone Italia
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Si scrive “revenge porn”, si legge “sessismo”

Il revenge porn non c'entra né col porno né con la vendetta. Ma allora perché si continua a chiamarlo così?

Si scrive “revenge porn”, si legge “sessismo”

PA Images via Getty Images

Qualche giorno fa sono stata vittima di un tentativo di truffa via email che sta girando in questi giorni: in un inglese che lasciava molto a desiderare, il mittente (uno sconosciuto) cercava di estorcermi soldi dicendo di avere le password della mia casella di posta e dei miei account social, di sapere che avevo frequentato “certi siti porno” (senza mai menzionare nello specifico quali) e di avere delle mie immagini compromettenti raccolte tramite la webcam del computer.

Il tono passivo-aggressivo e il chiaro intento ricattatorio della email non mi avevano certo messa a mio agio, anche se avevo riconosciuto l’imbroglio senza troppa fatica – aiutata dalla forma non impeccabile e dal goffo tentativo di estorsione. In ogni caso, non è affatto piacevole ricevere email del genere, specialmente di questi tempi. Ma sono riuscita a riderci su e a cestinarla senza troppi problemi, non senza avere consultato il sito della Polizia Postale per trovare maggiori informazioni a riguardo – dove, neanche a farlo apposta, la notizia si trovava in homepage, seppure riportando un testo leggermente diverso da quello che avevo ricevuto io. Quindi non mi sono fatta prendere dal panico: ho visto anche io la puntata Shut up and dance di Black Mirror, ci vuole più di così per fregarmi. 

Comunque sia questa piccola esperienza fastidiosa e soprattutto alcuni dettagli della minaccia – il fatto di sapere che ero andata su “certi siti porno”, il fatto di avere mie immagini private – mi hanno fatto riflettere. Navigo spesso su siti porno, faccio sexting ancora più di frequente e sono piena di foto e video miei nuda o intenta a fare la porca. In questo modo riesco a esprimere il mio desiderio e connettermi con esso. La mia libertà sessuale mi ha permesso col tempo di essere più sicura di me, più assertiva e determinata, e credo che sia un vantaggio vivere con serenità questo aspetto della mia vita perché ha portato giovamento in altri ambiti. 

Tutto ciò per me non è affatto un problema e, se mai quei miei video o foto dovessero diventare di pubblico dominio, cercherei di non farla passare liscia a chi li ha diffusi senza il mio consenso, senza però stressare la componente sessuale dei contenuti. Dal mio punto di vista, quindi, la discriminante non è l’oggetto ma la modalità di diffusione di materiale concepito come personale: se non è consensuale quella, allora è un problema.

Dirò qualcosa di molto impopolare, soprattutto in questi ultimi tempi in cui i noti fatti dei gruppi Telegram hanno riportato l’attenzione sul tema del revenge porn: sono d’accordo con chi sostiene che la legge sul tema entrata in vigore lo scorso 9 agosto sia una cazzata. All’inizio anch’io l’avevo accolta in modo positivo, ma più passa il tempo e più mi sembra mortificante. Ancora una volta si punta l’attenzione sul contenuto e non sulla modalità, un aspetto che non è affatto secondario perché implica inevitabilmente una serie di distorsioni percettive del reato.

Ci sono inoltre alcuni passaggi che mi lasciano particolarmente perplessa, come per esempio quello che recita: “la pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.” Non vedo perché il fatto che la vittima sia in tali condizioni dovrebbe comportare un’aggravante, e mi sembra una delegittimazione ulteriore delle persone con disabilità psico-cognitiva, fisica o in stato di gravidanza, intese come soggetti deboli nell’ottica di una società che, invece di agire per essere inclusiva, mette le pezze alla propria incapacità di accogliere chiunque con le proprie diversità. 

Per quanto mi riguarda, la gravità del reato sta nel fatto che del materiale privato circoli senza il consenso di almeno una delle persone ritratte in esso, in violazione di un tacito o esplicito patto di fiducia. Che tale materiale contenga immagini di persone nude o intente a fare sesso non dovrebbe essere di per sé il fulcro della questione – eppure lo è, e non a caso si parla di revenge porn, con tutta la mistificazione dovuta al fatto che, l’uso improprio del termine “porn”, pone in evidenza la matrice sessuale del contenuto e non il fatto che esso sia stato reso di pubblico dominio in modo totalmente arbitrario.

Inoltre, e qui ringrazio il filosofo Lorenzo Gasparrini per la riflessione, anche la parola “revenge” (vendetta) è inappropriata, perché ci si vendica in seguito a un torto che si è subito (realmente o presumibilmente), mentre in queste vicende la circolazione di materiale privato esula da questa dinamica. Se una persona ne lascia un’altra non sta commettendo un’ingiustizia, ha tutto il diritto di farlo. L’altra persona non ha di che vendicarsi, deve solo prendere atto della situazione. Parlare di “vendetta” pone l’accento sull’azione di chi subisce il danno effettivo – la diffamazione – addossandole responsabilità che non ha. Ricordiamoci inoltre che, quello che chiamiamo “revenge porn” avviene anche in relazioni ancora in essere, o fra persone che non ne hanno mai avuto una fra di loro.

In tale meccanismo a rimetterci sono ancora una volta le donne – cosa che non stupisce per niente, dato che si inscrive in una dinamica di discriminazione di genere in cui le donne dovrebbero vergognarsi di avere desiderio sessuale e di apprezzare il sesso. È grave che queste donne siano considerate vittime da una società che le vuole tali in ogni caso e che fa di tutto per soggiogarle al terrore del sesso. È grave ritenere che la cosa peggiore che possa capitare alle donne sia essere associate a materiale sessuale. È grave che, dopo essere state truffate, siano accusate di non essere persone avvedute e serie, che avrebbero dovuto pensarci prima, magari evitare. È grave essere sminuite per avere dato fiducia a qualcuno, un qualcuno che probabilmente amano o hanno amato. È grave che queste donne siano misconosciute dalle autorità che dovrebbero prendere in carico la denuncia e poi dalla Società tutta, bullizzate, tormentate, abbandonate, talvolta condotte al suicidio.

Non è grave che le donne facciano sesso. Non è grave che amino farlo. Non è grave che si sappia che lo facciano. È grave invece che la loro vita privata, sessuale o meno, venga resa pubblica senza il loro permesso. È grave che il sesso costituisca un’arma di vendetta (per cosa?), che di fatto è una dichiarazione di potere da parte di chi la agisce. Questo meccanismo basato sul sesso, in questo contesto culturale, manifesta quanto può essere distruttivo e irreversibile. Il problema non è il porno, non lo è tantomeno il sesso, il vero problema è considerare il sesso e il porno come fattori determinanti per la dignità delle persone. Un problema ancora più grande è decidere per altri che i loro spazi privati non abbiano alcuna importanza, che tutto può essere messo su pubblica piazza come nel Grande Fratello, fuorviati dalla nostra onnipresenza online.

Quello che viene definito “revenge porn” non è altro che una commistione di sessismo, sessuofobia e mancanza di empatia. Abbiamo un grosso problema, non sarà un’ammenda a risolverlo se non lavoriamo a una cultura che si fondi su rispetto e libertà individuali.

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