Perché la sessualità delle persone disabili è ancora un tabù? | Rolling Stone Italia
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Perché la sessualità delle persone disabili è ancora un tabù?

Abbiamo parlato con alcune persone disabili per capire meglio i loro problemi, e con alcune persone che si occupano del tema da anni per capire cosa sta cambiando

Perché la sessualità delle persone disabili è ancora un tabù?

Da quando ero adolescente fino a quando è andata in pensione, mia madre ha assistito persone con diversità funzionale di medio-grave entità che richiedevano un supporto didattico in età scolare – dall’infanzia all’adolescenza. Molte persone di cui si è occupata erano autonome fisicamente, altre avevano una disabilità fisica ma non pisco-cognitiva, mentre in altri casi i due aspetti coesistevano. Mentre crescevo e diventavo adulta, anche quelle bambine e quei bambini diventavano ragazze e ragazzi e poi donne e uomini, e mi sono chiesta spesso se avessero dei desideri di natura sessuale e in che modo li esprimessero, quando, con chi.

Se la sessualità è ancora un tabù, quella delle persone disabili lo è in modo esponenziale – basti pensare a tutti i progetti ricreativi in cui queste persone sono coinvolte e invitate a svolgere attività ludiche infantili. Eppure da tempo si discute l’importanza di far riconoscere alle persone disabili il diritto alla sessualità e all’affettività grazie all’azione condivisa di molte di loro, delle famiglie di appartenenza e di professionisti, come per esempio psicologi e sessuologi.

A tale proposito nel 2012, da un’idea di Max Ulivieri, è nato Loveability, un portale in cui le persone diversamente abili iscritte possono raccontare in prima persona di sé e condividere le proprie esperienze, inoltre una sezione importante è dedicata agli incontri. Max è stato anche uno dei fondatori e il presidente di LoveGiver, che si propone di formare persone in grado di supportare l’emotività, l’affettività e la sessualità di altre, che sono diversamente abili. Non si tratta di assistenza sessuale tout court – come quella che esiste in altri paesi, tra cui Germania, Paesi Bassi e Svizzera – ma di un primo passo. E grazie a LoveGiver nel 2014 è stato presentato un disegno di legge – che però non è stato ancora approvato – nel quale si chiede l’istituzione della figura dell’O.E.A.S. (operatore all’emotività, affettività e sessualità).

“LoveGiver continua a tenere corsi di formazione per preparare personale idoneo; da due anni a questa parte il servizio viene erogato da operatrici e operatori che fanno il tirocinio presso associazioni che hanno aderito all’Osservatorio Nazionale diretto dal dott. Fabrizio Quattrini (vice-presidente di LoveGiver), presso famiglie che hanno figlie e figli disabili o eventualmente presso persone disabili stesse. I tirocini sono a titolo gratuito, quindi la prestazione non va in opposizione alla legge vigente, rientrando in un contesto di benessere psico-fisico”, mi racconta Max, e aggiunge “il contatto corporeo tra operatrice/operatore e persona disabile è previsto fino all’accompagnamento alla masturbazione qualora la persona sia impossibilitata a farlo per conto proprio, ma l’obiettivo principale è quello di far arrivare alla piena autonomia nel raggiungimento della soddisfazione sessuale”. In quest’ottica di legittimazione della sfera sessuale altrui è fondamentale non vedere l’altra persona come un essere angelicato, asessuato, privo di voglie e fantasie sessuali. 

Un film molto toccante che riguarda questa tematica è il documentario italiano “Non è amore questo” di Teresa Sala e in cui Barbara Apuzzo racconta la propria vita e le sue esperienze intime, comprese le difficoltà a relazionarsi con qualcuno affettivamente e sessualmente.

“Per anni non ho mai toccato certi argomenti: mi vergognavo, era un po’ come se non mi sentissi ‘legittimata’ a parlare di sesso”, mi ha detto Barbara. “Poi, una decina di anni fa, ho avuto una relazione con un ragazzo e ho avuto il bisogno impellente di parlarne con le amiche e farmi consigliare. Non riuscivo ad avere un rapporto fino alla penetrazione, mi sentivo in colpa, e parlandone ho scoperto che il sesso poteva anche essere altro, poteva essere gioco, divertimento”. I dubbi e i timori che mi confida Barbara sono tutto sommato quelli di chiunque. “Nonostante sia più disinibita di un tempo, continuo ad avere un po’ di paure: mi farà male? Mi desidera sul serio? Vivrà il mio corpo come quello di una persona disabile?”.

Questo mi fa riflettere sulla percezione che abbiamo delle persone con diversità funzionale e sui pregiudizi che nutriamo nei loro confronti. “Sto capendo che se sono tranquilla, se il mio desiderio è forte e reale, allora tutto fila liscio”, aggiunge Barbara. “Sicuramente l’altro, incontrandomi sessualmente, si sente incuriosito e forse anche attratto dal mio corpo. Ma se ci si lascia andare è come se questa differenza di corpi sparisse del tutto”.

Ho parlato di questo tema anche con Anna Castagna, educatrice e consulente sessuale affetta da amiotrofia spinale di livello 3. “La mia patologia mi ha permesso di vivere la sessualità in modo autonomo. Sono sempre riuscita a esplorarmi e masturbarmi da sola, cosa che purtroppo non è possibile per chiunque, e non ho mai avuto bisogno dell’aiuto di nessuno per sperimentare questa parte di me. La stessa cosa vale per i rapporti sessuali che ho avuto nel corso della vita”.

Anna mi racconta che vivere la sua sessualità in modo molto spontaneo non le ha mai fatto supporre che le persone intorno a lei potessero percepirla come diversa. “Con questo non voglio dire che la mia patologia non abbia mai spaventato gli altri”, precisa, “ma che le persone generalmente sono più intimorite da quello che immaginano sul mondo della disabilità rispetto a quello che effettivamente è la realtà. Se non diamo loro l’occasione di ammettere di avere paura e di conoscerci, sarà molto difficile che le cose possano cambiare. Tendiamo a spaventarci davanti alla possibilità di esperienze nuove, soprattutto se sono ammantate da stereotipi e significati simbolici, questo vale per chiunque. Io ho avuto la fortuna di avere genitori molto attenti, che mi hanno insegnato ad ascoltare il mio corpo per sperimentare le mie potenzialità e accogliere i miei limiti.”

Mi sovviene il documentario spagnolo “Yes, we fuck” del regista Raul de la Morena e dell’attivista per i diritti delle persone disabili Antonio Centeno, che raccoglie le testimonianze di persone con diversità funzionale e delle loro famiglie e mostra scene di sesso, finalmente dalla prospettiva delle e dei protagonisti, con una riflessione sulla sessualità e sulla pornografia. 

“Mi piace guardare film porno,” mi ha detto Anna quando abbiamo parlato di quest’ultimo aspetto, che mi interessa particolarmente. “Ho realizzato le mie fantasie legate alle tipologie che guardo e quindi, in un certo senso e nel limite del possibile, mi sento rappresentata”. L’esperienza positiva di Anna nell’affrontare la propria sessualità e quelle di chi si racconta nel documentario mi ricordano quanto sia cruciale il ruolo della famiglia nella costruzione dell’identità sessuale – e quanto sia fondamentale che proprio all’interno del nucleo familiare ci si riconosca come individui con una propria espressione di genere, orientamento sessuale e desideri.

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