Non avrò altre scarpe all’infuori di voi: ode alle calzature brutte | Rolling Stone Italia
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Non avrò altre scarpe all’infuori di voi: ode alle calzature brutte

Dalle Birkenstock indossate da Frances McDormand pure sui red carpet ai sandaletti ‘da nonna’ Worishofer sdoganati da Kirsten Dunst. Storia semiseria di una tendenza inarrestabile. A cui nessuno può più rinunciare

Non avrò altre scarpe all’infuori di voi: ode alle calzature brutte

Frances McDormand con le Birkenstock alla Festa di Roma 2019

Foto: Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for RFF

Sono stata a tanto così dal comprarle, giuro. Le vedevo sempre quando passavo davanti al negozio di scarpe su North 6th Street, vicino alla fermata di Bedford Avenue: la zeppa di sughero, le fibbiette, il sapore di nonna romagnola che prepara il brodo per i cappelletti, la promessa di una comodità che non avrei trovato altrove. Le Worishofer erano state nobilitate prima da Kirsten Dunst, poi erano arrivate Maggie Gyllenhaal, Michelle Williams, Keri Russell. Dicevano che facevano tanto “granny-cool”, e qualsiasi ragazza stilosa incontrassi le aveva ai piedi: ero vittima d’emulazione, salvata in corner da un’amica che fissandomi negli occhi e stringendomi il braccio m’intimò: «No, Mari, sono davvero troppo brutte. Troppo».

Un anno prima del mio innamoramento finito male, in un’altra città, succedeva qualcosa che avrebbe cambiato per sempre il corso della storia. Nel marzo 2012, durante la settimana della moda parigina, Phoebe Philo – all’epoca direttrice creativa di Céline, venerata in ogni dove per il suo approccio intellettual-chic che ha rivoluzionato il brand – riabilita le Birkenstock. O, almeno, una loro rivisitazione in chiave surrealista. Le modelle che sfilano per Céline indossano sandali che ricordano il modello Arizona (quello, per intenderci, che fino ad allora costituiva la divisa d’ordinanza dei backpackers in giro per il Vietnam o dei turisti teutonici in visita in Italia), ma foderati con pelliccia di visone.

L’effetto domino che si scatena è imprevisto, e di una portata al di là di ogni immaginazione. «È l’anno delle Birkenstock!», titola entusiasta il Guardian. Vogue America dedica loro l’articolo Pretty Ugly: Why Vogue Girls Have Fallen for the Birkenstock (letteralmente: “Decisamente brutte: perché le ragazze di Vogue si sono innamorate delle Birkenstock”), dove una serie di editor e contributor dichiara senza vergogna la propria fedeltà ai sandali tedeschi. I Furkenstocks di Céline fungono da apripista per Miley Cyrus, che si fa fotografare con un paio di sandali ingioiellati; per Giambattista Valli, che ne fa una versione metallizzata con borchie; per Givenchy, che ne propone una variante di cuoio nero con rose rosa stampate. E persino uno come Manolo Blahnik, dall’alto del suo personale Olimpo, si dichiara fan delle Birkenstock.

«Noi non ci occupiamo di calcolare quale sarà il prossimo trend nella moda, anzi a essere onesti sarebbe meglio non essere così di moda in questo momento». Intervistato dal New Yorker, l’amministratore delegato di Birkenstock Oliver Reichert ha ammesso non solo che il fenomeno Furkenstocks non era minimamente voluto, ma che è pure stato difficile per l’azienda tenere il passo della domanda di alcuni modelli. La provocazione lanciata da Phoebe Philo diventa precorritrice di un movimento più ampio, il Normcore (come lo ribattezzò il New York Magazine), che rende glamour scelte stilistiche fino a prima discutibili e celebra «la volontà di non distinguersi come un nuovo modo di essere cool, senza cercare per forza di fare la differenza e indossando abiti orgogliosamente ordinari».

 

 
 
 
 
 
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Le Birkenstock si inseriscono quindi in questo cambio culturale sia perché sdoganate da grandi stilisti e testate blasonate sia perché le persone – secondo Reichert – realizzano che molte scarpe le forzano a una postura scorretta e dannosa per la salute, e desiderano quindi tornare a rispettare il proprio corpo (piedi compresi). Ultimo, ma non meno importante, quelle stesse persone stanno iniziando a dimostrare un interesse crescente per la provenienza di ciò che indossano e per l’impatto ambientale e sociale delle loro scelte nel vestiario. Birkenstock produce ancora i propri sandali in Germania e mantiene la promessa di riparare le calzature consumate indipendentemente dal loro stato. «Oggi possiamo comprare un paio di pantaloni per meno di dieci euro da Primark, ma non durerà. Chiunque sa che in Bangladesh c’è un dipendente sottopagato che ha sofferto per produrre quei pantaloni da dieci euro; chiunque sa che non un accordo equo», conclude Reichert.

Tutta questa digressione da manuale del costume e della moda per dimostrare che la mia ossessione per le Worishofer (mai sopita, ci tengo a sottolineare) è figlia d’un fenomeno ben più ampio, che ha ridefinito i confini dell’accettazione – e dell’esaltazione – di scarpe comode, comodissime, che non avremmo mai creduto di poter desiderare ardentemente. All’interno di tale grande movimento vanno inserite, oltre alle Worishofer e alle Birkenstock, le Teva, le Crocs (che, rivisitate da Balenciaga, hanno tacchi, zeppe e, se possibile, sono pure più brutte della versione “base”), le Dansko, le ciabbe dell’Adidas; io ci ficco anche gli Ugg e le Blundstone, i miei mai-più-senza invernali.

Il sandalo Arizona rimane comunque l’antesignano, ormai eletto a complemento cerebrale irrinunciabile di look fintamente rilassati, con allure da intellettuali, sì, ma dégagé. Vedi l’ultrafan Frances McDormand, che li indossa pure a festival e cerimonie di premi formalissimi, e chi se ne importa del dress code. L’Arizona, nato come uno statement d’indipendenza («Me ne frego d’esser figo») s’è trasformato suo malgrado in uno statement di dipendenza da ciò che decide il front row («Fingo che me ne freghi d’esser figo»). A chi sostiene si sia sputtanato rispondo che no, è comunque ancora necessario avere carattere – e una certa sicurezza in sé stessi – per esibirlo accoppiato all’ultima Gucci e allo short rigorosamente vintage, rigorosamente Levi’s.

Un cielo senza nuvole? Per noi fortunate, coraggiose, menefreghiste (fino a un certo punto) che non compriamo scarpe col tacco da circa dieci anni, quasi. E scrivo “quasi” perché l’ultimissima tendenza in fatto di brutto-ma-comodo che sta ahimè spopolando in ogni dove sono le ciabbe da piscina disegnate da Kanye West per Adidas, le Yeezy Slides in plastica con suola a carrarmato. Una cafonata da 50 dollari vista ai piedi di Kendall Jenner, Hailey Bieber e Chiara Ferragni, esibita con calzino bianco d’ordinanza e Birkin sottobraccio: ormai introvabili, le delicatissime calzature vengono rivendute online a prezzi da capogiro – e per capogiro intendo 500 euro su Farfetch.

In casi del genere, l’unica è appellarsi al tempo, il solo capace di distruggere o di elevare: il brutto anatroccolo (leggi: le Birkenstock, le Worishofer e le altre) è diventato cigno (leggi: oggetto del desiderio) perché è riuscito a resistere ai trend del momento, rivelandosi e consegnandosi a noi nella sua orrida bellezza. Toccherà il medesimo destino pure alle Yeezy Slides? Al momento non so rispondere e non so che cosa augurarmi, anzi, augurarci. So soltanto che – visti da qui – i miei amatissimi sandaletti Worishofer rossi sembrano la quintessenza dello chic, e forse pure la mia amica ora sarebbe d’accordo.