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Io, devota di Supreme pentita

Storia (parziale e personale) del brand di James Jebbia, che ha aperto il suo primo negozio a Milano. Ma lo spirito dello store originale, da cui passava gente come Harmony Korine e Chloë Sevigny, ha ceduto il passo agli influencer di oggi?

Io, devota di Supreme pentita

Foto: Charles Deluvio/Unsplash

Nella mia vita ho fatto parecchie cose di cui mi vergogno tantissimo, alcune delle quali hanno implicato grossi sbattimenti. Una volta, a New York, mi sono svegliata alle 4 del mattino per mettermi in coda davanti alla pasticceria di Dominique Ansel e aggiudicarmi un cronut – ossia la sua celeberrima invenzione, un dolce a forma di donut, con l’impasto di un croissant. Tutti all’epoca volevano un cronut, c’erano persone disposte a pagare altre persone solo perché facessero la fila al posto loro: io, dopo il primo morso, ho rimpianto il calduccio del mio letto e ho maledetto il sonno atavico che avrei dovuto sopportare per un’intera giornata. Ma andava fatto, mi son detta, non potevo esimermi.

Un’altra volta, sempre a New York, mi sono svegliata più o meno alla stessa ora per correre al 274 di Lafayette Street e attendere insieme a un folto gruppo di ragazzotti – tutti nettamente più giovani e stilosi di me – l’apertura dello store Supreme. Era un giovedì d’una decina d’anni fa, mi ero registrata tempo prima a una mailing list e il lunedì precedente avevo fatto un salto in un bugigattolo nell’East Village per assicurarmi il biglietto che m’avrebbe dato diritto a un posto nella fila del consueto drop settimanale. Sì, avete letto giusto: il biglietto non mi dava diritto a entrare nel negozio; il biglietto mi dava diritto a stare in fila. Mi sono sottoposta a un simile tour de force per un semplice motivo: si vociferava che Supreme avrebbe rilasciato un numero limitatissimo di Box Logo Tee bianche (quelle che sul resale, usate, costano intorno ai 700 euro o giù di lì), e non potevo esimermi. Oltre a un raffreddore senza precedenti, m’accaparrai un cappellino Made in Vietnam con più acrilico che anima: veni, vidi, vici, e chissenefrega se la t-shirt era andata a qualcuno di più fortunato. Io comunque non ero stata meno valorosa.

Lo scorso 6 maggio ha inaugurato a Milano il primo negozio Supreme in Italia, in piazza San Simpliciano; è il tredicesimo nel mondo, il terzo in Europa dopo Londra e Parigi. Complice una riunione in zona, un pomeriggio mi sono decisa a farci un salto: ci sarò rimasta sì e no una decina di minuti, e mentre ero lì m’è salito un misto di nostalgia, fastidio, insofferenza, rabbia, tristezza. Guardavo i ragazzotti e le ragazzotte di adesso scartabellare tra le felpe, le t-shirt e i pantaloncini; guardavo i loro jeans Zara, i loro Apple Watch e le loro camicie Gap; guardavo i loro tatuaggi brutti e le loro borsette Louis Vuitton; li osservavo mentre cercavano spasmodicamente qualcosa e non potevo fare a meno di chiedermi se sapessero perché volevano quel qualcosa. Anzi, la verità è che mi sono sentita quasi offesa: desideravano Supreme dopo aver visto il brand addosso a uno stuolo di influencer, ignorandone completamente il passato glorioso.

Una decina d’anni fa, quando ancora non esistevano i Ferragnez e le uniche levatacce erano quelle per l’immettibile Lanvin for H&M, io ero già pazza di James Jebbia. Classe 1963, originario di Crawley, West Sussex, da teenager Jebbia lavora alla Duracell, ascolta Bowie, i T. Rex e spende il denaro messo da parte in viaggi regolari a Londra, dove acquista abiti in piccoli negozi che «avevano la roba cool, la roba che tutta la gente voleva indossare». A diciannove anni lascia l’Inghilterra e approda a New York, diventando assistente alle vendite in un negozio a SoHo, Parachute, per poi aprire Union, in Spring Street, che propone streetwear di marchi inglesi e abiti disegnati da Shawn Stüssy, skateboarder e surfer.

Sono gli anni d’oro della cultura skate: Jebbia ne coglie le potenzialità e nel 1994 apre un suo negozio su Lafayette Street, ai tempi una strada tranquilla che contava – oltre alle botteghe d’antiquariato – una caserma dei pompieri, un meccanico e il flagship di Keith Haring. James Jebbia allestisce uno spazio assai spartano con tavole da skate di buona qualità, suona musica ad altissimo volume e riproduce video in continuazione, dai combattimenti di Muhammad Ali alle clip di Taxi Driver. La scelta dei commessi ricade su giovani skater übercool con un’attitudine tra il supponente e lo strafottente, e non è affatto casuale: chi ne era tagliato fuori poteva dare una sbirciata alla loro blindatissima cricca; il sottotesto era chiarissimo: i comuni mortali devono guadagnarsi il diritto di entrare e fare shopping da Supreme.

Foto: Erik McLean/Unsplash

I primi dipendenti sono comparse del film di Larry Clark, Kids, scritto da Harmony Korine, che a sua volta viveva nel quartiere e ricorda Supreme non tanto come un negozio in senso stretto, ma più come un punto di ritrovo. In principio ci fu il magazine, che ritraeva i volti della giovane ed emergente scena downtown newyorchese – da Chloë Sevigny e Ryan McGinley a Mark Gonzales –, un misto pizza di modelle, artisti, skater, attori, attrici e musicisti: «James ha sfruttato un ingrediente segreto», racconta Korine, «Supreme è rimasto forte perché è sempre stato dalla parte dei giovani, e i giovani spingono la cultura. Non è una cosa che si può improvvisare».

Di lì a poco arrivano le t-shirt con il logo rosso e la scritta bianca in Futura, le felpe con cappuccio, i cappellini: nel giro di un anno la voce si sparge, un articolo di Vogue paragona il brand a Chanel e Supreme diventa di colpo «lo Chanel dello streetwear». Le fotografie di Terry Richardson che ritraggono Kate Moss, Kermit la rana, Michael Jordan, Neil Young e Morrissey con indosso le Box Logo Tee scrivono una parte della storia del costume, e pian piano partono le collaborazioni con artisti che personalizzano tavole da skate, magliette e altri indumenti. L’elenco di coloro che hanno collaborato con Supreme negli ultimi due decenni potrebbe riempire una galleria: Christopher Wool, Jeff Koons, Mark Flood, Nate Lowman, John Baldessari, Damien Hirst; fino a quella che ha cambiato tutto, la linea di t-shirt, scarpe e camicie prodotte con Comme des Garçons, nel 2012.

Dietro un successo simile si nasconde un mix ben studiato di diversi elementi: la felice intuizione di Jebbia, avvenuta in un momento storico di grande fermento culturale, che gli ha permesso di accaparrarsi il favore di quelli che sarebbero divenuti i trend setter degli anni futuri. In secondo luogo lo stile, che mischia diverse tendenze underground degli anni Ottanta e Novanta, come evidenzia il New York Times: «Supreme prende lo spirito punk degli skater dell’era di Dogtown, il pragmatismo macho dell’abbigliamento militare, i colori sfacciati dell’hip hop degli anni Ottanta, e li fonde in un’estetica unica». Ultima, ma non meno importante, la tattica che è riassumibile con una celebre frase di Jebbia: «Se so che ne posso vendere 600, allora ne produco 400». Supreme rilascia ogni capo in quantità limitatissime, generando fermento e incoraggiando i clienti a essere costantemente aggiornati, creando una sorta di “rituale”: il drop del giovedì, che guida e aumenta l’eccitazione dei fan. La strategia di “scarsità artificiale” dopa parallelamente il mercato del resale, il regno di gente disposta a pagare 5x, 10x o addirittura 25x per un prodotto Supreme: l’azienda si rifiuta giustamente di andare incontro alla domanda aumentando la produzione o i prezzi, e trasforma così il processo di acquisto off e online in una gara.

James Jebbia, insomma, costruisce il proprio castello basandosi su un elemento fondamentale: l’esclusività. Produce pochi capi che puntualmente vengono esauriti pochi minuti dopo la messa in vendita, senza dare ai consumatori il modo di annoiarsi o di allontanarsi da Supreme perché troppo mainstream. Rifiuta qualsiasi collaborazione con le celebrity, nonché di regalare vestiti o di elargire particolari limited edition in anteprima solo per farsi pubblicità: non si tratta di un atteggiamento dettato da nobiltà d’animo, ma dalla necessità di rimanere fedele al “codice Supreme”, che fa salivare la gente come me. Codice che è stato in parte tradito nel 2017, quando il fondo di investimenti Carlyle Group ha acquistato circa il 50% delle azioni di Supreme per una cifra intorno ai 500 milioni di dollari, valutando l’intera società un miliardo di dollari. Poi la conclusione nel 2020, con l’acquisto da parte del gruppo VF Corporation per 2,1 miliardi di dollari: «Questa partnership manterrà la nostra cultura unica e indipendente, permettendoci di crescere lungo lo stesso sentiero sul quale siamo dal 1994», ha commentato Jebbia.

Crescere, già: imprenditorialmente necessario, sentimentalmente superfluo. Un diamante sarebbe lo stesso un diamante, se chiunque potesse permetterselo? Supreme era sinonimo di sbattimento, di un circoletto chiuso, di un club dove gli sfigati non soltanto non erano invitati, ma a cui non era permesso entrare. Ora, vedere le orde barbariche che indossano felpe e t-shirt di dubbio gusto, emulando il Fedez o il Ghali di turno, spezza il cuore a noi fan della prima ora. Ha senso vestirsi Supreme oggi? Ha senso immortalarsi su Instagram vestiti Supreme? Ha senso sperticarsi per andare in piazza San Simpliciano? Dato che Supreme non è più quel Supreme, non è (vagamente) da sfigati sfoggiare la felpetta col suo bravo logo in Futura? «Supreme ha bisogno di restare cool per sopravvivere», sosteneva in tempi non sospetti James Jebbia: lancio un ultimo sguardo commosso al mio cappellino Made in Vietnam con più acrilico che anima, e lo ripongo tra i vestiti destinati al Centro Raccolta dell’Opera San Francesco. Per me, Supreme finisce qui.

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