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Il tempo dell’eterno parental burnout, anche con paletta e secchiello in mano

Che se ne parla a fare quando non si è più chiusi in casa a lavorare, vittime della pandemia, ma in spiaggia? Ebbene, si fa che ci si lamenta e che si realizza che è vero: ci stiamo portando dietro una sorta di esaurimento, noi genitori, lavoratori e non. Anche se siamo con le chiappe a mollo al mare

Foto: Netflix

Chiamatemi folle, ma se c’è una cosa che ho sempre un po’ sofferto, è la vita di mare. Certo, mi piace abbastanza da non vedere l’ora di farci una capatina appena inizia il calduccio della primavera inoltrata, ma non ne sono mai stata una fanatica. Per intenderci: piuttosto che pranzare in spiaggia d’estate preferirei essere sottoposta a una lunch-box della Tisanoreica (scusa Gianluca Mech, nulla di personale): e, se c’è una cosa che aborro completamente, è l’idea di non avere un ombrellone. Men che meno, una sdraio da piazzarci sotto. Il fatto è che la spiaggia d’estate è bella, ma fa sempre troppo caldo, la sabbia (o i sassolini) finiscono ovunque, ci sono le meduse e, quanto peggio, è ancora considerato legale, per gli uomini, indossare lo slip bianco.

È stato solo con l’inizio della vita da giovane adulta che mi sono resa conto di ciò che mi piaceva davvero, del mare. Ossia, il privilegio del relax. Di una sdraio lasciata all’ombra, e di un libro da leggere nel sottofondo del vociare allegro dei bambini tra le onde. La bellezza del lasciarsi cullare da quella filosofia del sta’ senz penzier che avevo fatto mia dai tempi della prima stagione di Gomorra, e che per un certo periodo mi ha portata a sopportare di buon grado il sudore, il cambio-Tampax nei bagni horror del lido di turno, gli uomini nei sopracitati slip bianchi. Ma dato che tutto ha una fine, non c’è voluto molto affinché anche questa parentesi di beatitudine volgesse al termine. Che il relax andasse a farsi benedire nel mucchio di palette, secchielli, braccioli, occhialini, creme, merende, cappellini, legnetti e palline. In altri termini: l’immancabile sacca di rete con i giochi del mare. In altri termini ancora: la croce dei genitori nella caldissima via crucis che conduce al mare. Negli ultimi giorni, mi è bastata una lunga mattina in spiaggia con le mie figlie per rendermi conto che la questione non è più tanto il patire la vita di mare: è che la vita di mare, coi bambini, è spesso una sofferenza.

Sì, perché quando ti ritrovi da sola in spiaggia (il papà era al lavoro) a gestire una bambina di dieci mesi che piange perché ha caldo e vuole tornare a casa a dormire, mentre l’altra di cinque anni piange ugualmente ma perché vuole solo fare i castelli di sabbia e il bagno, le cose iniziano a farsi stressanti. Se ci metti pure che devi spostare sulla spiaggia il passeggino (con bambina sopra), la famosa sacca dei giochi, il salvagente-unicorno, il tuo stesso corpo in abiti e scarpe troppo pesanti (perché hai fatto la peggiore valigia nella storia delle valigie), le tue notti insonni e la tua stanchezza generale, allora non solo ti ritrovi sudata e affaticata: sei pure esaurita. E, oltretutto, consapevole di aver avviato una sorta di modalità Bear Grylls, ma per la sopravvivenza genitoriale.

Definizione, questa, che – quella mattina stessa – mi ha fatto ripensare a un articolo letto di recente sul New York Times che indagava ancora una volta il fenomeno ormai conosciuto come parental burnout. Questa volta, però, con i dati alla mano del rapporto pubblicato a inizio mese dalla Ohio State University, che tramite un sondaggio online evidenziava come, su 1.285 genitori lavoratori, circa il 66% soddisfacesse i criteri del cosiddetto burnout dei genitori. In pratica: una condizione di stress, stanchezza, ansia da prestazione per l’accudimento dei figli che porta il genitore di turno a sentirsi non solo sopraffatto, ma anche completamente svuotato. Per dirlo con le parole di chi ha le competenze giuste, tipo la dottoressa Jeniffer Yen, psichiatra dell’UTHealth Houston: «Come per il burnout, il parental burnout è definito esaurimento fisico, emotivo e mentale dovuto alle continue richieste di prendersi cura dei propri figli». E che ha visto la sua massima esternazione nel periodo pandemico.

Dakota Johnson in ‘La figlia oscura’, Foto: Netflix

Il sondaggio è stato effettuato nel periodo tra gennaio e aprile 2021, quando gli Stati Uniti erano in completo lockdown, in una situazione che ha messo a dura prova i genitori in generale, certo, ma soprattutto quelli che dovevano dividersi tra la gestione del lavoro e la gestione dei figli, sempre a casa. Oltretutto – e in barba a chi dice con nonchalance che è ovvio, che ci si divida i compiti tra mamma e papà – il sondaggio ha evidenziato quanto il parental burnout interessi più le madri lavoratrici (il 68%), anziché i padri lavoratori (il 42%). E ciò, ancora una volta, è la conferma di quanto siano le madri professioniste ad avere maggiormente in carico (e a scontare, in qualche modo) l’accudimento dei figli. Esaurimento incluso.

Che ci si lamenta a fare, allora? Che si parla a fare, allora, del parental burnout, quando non si è più chiusi in casa a lavorare, vittime della pandemia, ma in spiaggia a scavare, paletta e secchiello in mano? Ebbene: si fa che ci si lamenta, e si fa che se ne parla. Si fa, in generale, che si realizza che è vero, che ci stiamo portando dietro una sorta di esaurimento, noi genitori, lavoratori e non. Anche se siamo con le chiappe a mollo al mare, e non a casa davanti a un computer. Perché, per quanto la pandemia non ci sia più, è evidente che «il burnout dei genitori non finirà magicamente quando la pandemia finalmente si esaurirà»; e perché «la cronicità della pandemia ha avuto un pedaggio, e ha prosciugato le riserve di coping (ossia di adattamento e risposta, nda) di molti genitori, che richiederanno tempo e pazienza per ricostruirsi». Questo sempre per dirlo con le parole di chi ha le competenze giuste, cioè Bernadette Melnyk, preside del College of Nursing dell’Ohio State, nonché autrice del rapporto.

Il problema più grande, oltre a un opportuno aiuto statale, è che – mi viene da ipotizzare – manca quell’entourage di persone che un tempo supportavano i genitori, e che aiutavano nella gestione dei figli. Sto parlando dei nonni, che oggi ancora lavorano, o sono troppo anziani; delle vicine di casa, con cui manco ci si parla più; degli zii, all’estero; degli amici, alle prese coi propri, di figli (oppure ancora a ballare, eh). Insomma, di quel tessuto sociale che da sempre ha creato il supporto fisico ed emotivo adeguato, proprio della comunità.

E che oggi è più che mai necessario per rispondere alle richieste di aiuto di chi alza la mano, e dice la cosa più coraggiosa di tutte: «Sono un genitore, amo i miei figli, e sapete che c’è? Che sono stanco». Ma non di portare la sacca di rete coi giochi del mare, sul lungomare cocente di un mattino di agosto. O di provare a costruire l’ennesimo impossibile castello di sabbia, perché la sabbia, dove siete in vacanza, neanche c’è. Piuttosto, stanco di essere un papà, una mamma, il genitore qualunque che si è trasformato in un altro genitore, che critica, urla, insulta, sculaccia un po’ troppo. Il genitore che il bambino, di nuovo in quella spiaggia, persino sotto lo stesso ombrellone, non riconosce più. Non fosse altro che per la paletta e il secchiello, gli stessi dell’anno scorso, ancora una volta in mano.

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