E se tutti uscissimo per sempre dai social? | Rolling Stone Italia
Pop & Life

E se tutti uscissimo per sempre dai social?

A metà tra provocazione e timida proposta rivoluzionaria: cosa succederebbe se di colpo smettessimo di seguire tutti, se di colpo lasciassimo per sempre qualsiasi piattaforma?

E se tutti uscissimo per sempre dai social?

Bryce Dallas Howard in 'Black Mirror'

Foto: Netflix

Abbiamo davvero ancora bisogno di stare sui social? Si tratta di una questione che, per quanto mi riguarda, è lì, silente, in un angolino del mio retro-cranio, e riemerge con prepotenza in seguito a ondate di fastidio provocate appunto dal mio essere sui social. In questo caso specifico, sono stati due gli eventi che l’hanno fatta riaffiorare. Da qualche anno a questa parte – in particolare, dall’omicidio di George Floyd – ho ripulito il mio Instagram, che resta ancor oggi la piattaforma che utilizzo di più. Ero diventata incazzosa, faticavo a tollerare la marea di stronzate, qualunquismi, asterischi, hashtag furbetti, indignazioni e buonismi a cui venivo sottoposta ogni volta in cui scrollavo il mio feed e sbirciavo le altrui storie. Scoprire il potere liberatorio dell’unfollow è stato in un certo senso catartico: ho eliminato sedicenti giornalisti tramutatisi in sedicenti attivisti; gente che immortalava avocado toast spacciandosi per fine gastronoma; malati di like che si fotografavano con qualsiasi minchiata gli uffici stampa gli inviassero; presunti esperti di razzismo, femminismo, populismo, abilismo, alcolismo e terrorismo che postavano dai loro divani in corso Vercelli. Ho eliminato i blogger che si credevano Joan Didion, i book influencer, i food influencer, i beauty influencer, gli art influencer, i vattelapesca influencer.

Mi sono rimasti gli amici, quelli veri intendo, quelli che m’interessa sapere dove sono e cosa fanno; le celeb, quelle vere intendo, per gli stessi identici motivi; i brand di moda che amo; un manipolo di squinzie che si vestono da dio e che parlano soltanto di pantaloni, giacche, scarpe, borse e camicie; le testate che solitamente leggo; qualche account che sforna meme che mi fanno ridere. Nonostante la bonifica della palude abbia nettamente migliorato il mio umore nonché il sanguinamento dei miei occhi, non posso dirmi completamente immune da piccole insofferenze localizzate. Un paio di giorni fa, un amico mi manda su WhastApp il post di una tizia che entrambi mal sopportiamo – e che ho smesso di seguire a suo tempo – commentando un’affermazione da lei fatta. «Madonna che sfigata», mi scrive, mentre sento l’avversione ribollirmi nelle vene. Convengo con lui, sia chiaro, ma non posso non domandarmi quanto costei si senta fiera del suo contenuto finto-engagé, a suon di «Grande!», «Pazzesca!», «Sei la nostra preferita!».

«Bisognerebbe smettere di seguire tutti», continua il mio amico, «bisognerebbe uscire da ‘sti cosi per sempre» (ebbene sì, il titolo di ciò che state leggendo è suo: ognuno ha le sue personali muse). La questione è molto semplice: chi sarebbe questa tizia senza i social? Una benemerita sconosciuta destinata al dimenticatoio, o comunque la magniloquente giornalista-barra-attivista-barra-esperta-di-ingiustizie-sociali che Instagram ha prodotto? Nella sua newsletter ¡Hola Papi!, John Paul Brammer solleva un punto interessante: «Il tempo trascorso su Internet ha offuscato la distinzione tra la mia identità online e la mia personalità offline: il mio senso del sé. La maggior parte dei social media è formato da persone che parlano da sole, con l’illusione di parlare tra loro».

Foto: Netflix

A livello intellettuale, emotivo e psicologico, i social sono ben lungi dal costituire una rappresentazione perfetta del nostro essere. Anzi, costituiscono forse la rappresentazione più disonesta e menzognera, e il cortocircuito avviene quando ci si rende conto che occorre portare avanti questa performance anche nella vita reale: sbandieriamo la nostra vicinanza ai profughi ucraini e ai migranti, ma senza rendere noto che lo stiamo facendo dinanzi al camino dell’appartamento di famiglia a Gressoney. Tifiamo pubblicamente per lo scrittore sieropositivo che vorremmo tantissimo vincesse lo Strega, però nel buio delle nostre chat private confidiamo agli amici che lo riteniamo uno stronzo privo di talento. Supportiamo la comunità lgbtq+, mettiamo la fotina arcobaleno durante la settimana del Pride, per noi neri gialli verdi blu rossi sono tutti uguali e degni di rispetto, eppure evitiamo di sottolineare che frequentiamo soltanto individui bianchi, etero (o al massimo gay) cis della nostra medesima estrazione socioculturale, e che le uniche cinesi che conosciamo sono quelle che ci fanno le unghie il sabato mattina.

I social – come il sonno della ragione – generano mostri, e qui arriviamo al secondo evento che ha scatenato il mio desiderio di abbandonarli. Cinque anni fa, in occasione di un pranzo stampa, conobbi una tipa che non so di preciso cosa faccia nella vita, se non ciò che a Milano fanno coloro che non hanno bisogno di lavorare: curare un progetto. Prende a seguirmi su Instagram con l’entusiasmo tipico di chi vede nel prossimo un’opportunità di vendita del suddetto progetto; ricambio il follow per cortesia salvo poi smettere di seguirla poco dopo: il fantomatico progetto non m’interessa, i contenuti m’annoiano, mi pare l’ennesima (giornalista? content creator? influencer?) la cui presenza online è superflua. Vedendo che non ero in grado di procurarle un ingaggio e che non le servivo a una mazza, anche lei – dopo aver piazzato like strategici – mi elimina dalla sua lista e proseguiamo così, in una rincuorante indifferenza reciproca.

Durata fino a sabato scorso, quando, uscita dal cinema, mi ritrovo in direct il seguente messaggio: «Marianna ciao! (Amica comune) mi ha parlato di te e del (nuovo incarico che sto ricoprendo)! Sono curiosissima, spero di conoscerti presto!». Un po’ volevo ridere, un po’ volevo piangere; un po’ volevo risponderle «Ma chi sei, ma chi t’ha chiesto nulla, ma che vuoi da me»; un po’ sentivo il «Perché mai renderti tanto ridicola» in canna; un po’ ammiravo la faccia tosta, un po’ avevo il fastidiometro impazzito; un po’ non riuscivo a non chiedermi se, in un universo parallelo dove non fossi stata su Instagram, avrei ugualmente vissuto una situazione del genere, al limite tra il grottesco, l’imbarazzante e lo squallido. Mi avrebbe contattata? Come? Avrebbe gonfiato il petto, forte dei suoi follower, consapevole di non potermeli spiattellare in faccia? Avrebbe comunque finto di non conoscermi?

Malgrado le grandi pulizie, malgrado la mia attività si riduca a una manciata di azioni base (i link degli articoli che scrivo; foto di attori, attrici, modelle eccetera che mi piacciono; meme che mi divertono; posti o concerti fighi a cui vado), malgrado non li prenda minimamente sul serio, i social media sono diventati in un certo senso «like a film that’s so bad but I gotta stay till the end» – Jarvis Cocker, perdonami. So di non essere l’unica impigliata in questo circolo vizioso diabolico e masochista, e so anche che tra noi, i nauseati e disillusi, sta prendendo piede l’azione più collettiva e rivoluzionaria dei XXI secolo: uscirne per sempre, tutti. Immagina: assistere al collasso dell’economia del sé (cit.), al rogo dei mediocri venditori di fuffa, al crollo di un sistema concepito per celebrare il nulla cosmico e per indisporci giorno dopo giorno.

«E sventolano bandiere
Sulle macerie
Di quest’epoca stupida
E io ci godo un po’»

Altre notizie su:  instagram social