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Una sneaker ci seppellirà

Il pimpatissimo feticismo per la merce di alcuni fan della trap rischia di trasformarla in una bolla, una moda passeggera. Se così fosse, questa scena lascerà spazio a chi, come Salmo e pochi altri, dice quello che pensa e pensa quello che dice

Una sneaker ci seppellirà

Kanye West

Foto IPA

C’è una grossa differenza tra il rap di Salmo e le canzoni dei ventenni trapper oggi tanto di moda, dalla Dark Polo Gang a Capo Plaza. E non è certo una questione musicale, di beat o flow; c’è un salto di significato e di senso che è generazionale, insieme sociale e politico. Quando Salmo ha iniziato – stando a Wikipedia le sue prime rime sono state incise tra il ‘97 e il ‘98 – l’hip hop in Italia era controcultura, una zona temporaneamente autonoma dal mainstream del pop, che si portava dietro un acerbo mix di incazzatura social (prima dei social) e politicamente scorretto, di collanone e felpe della tuta, di svacco punk e consapevolezza indie.

Giocando con le metafore care al genere, in quegli anni si entrava nel conformismo della discoteca berlusconiana stappando bottiglie rubate di champagne e prendendo per i fondelli le vallette sul cubo e i manager barricati nel privé. Si faceva a gara a chi fosse il primo a farsi cacciare da un buttafuori, i rapper erano un po’ cani sciolti (ricordate i Sangue Misto?) e un po’ Nemico Pubblico, come cantava Fabri Fibra citando i Public Enemy. E oggi? È lo stesso Fibra a riassumere la situazione: “Compro Gucci alla mia ragazza, offre solo questo l’Italia”, rappa in Pezzo Trap, dall’ultimo album di Gemitaiz. Ovvero: il rap da anticonformista si è trasformato nella distopia sberluccicante (“Voglio il ghiaccio al polso”, canta Capo Plaza circa il suo sogno di avere gioielli) del conformismo. È diventato popolare, di moda, facendo uno spregiudicato marketing che ne ha cambiato i connotati, fino a trasformarlo in un oggetto dei desideri privo di imperfezioni, e spesso anche di arte.

Qualche settimana fa sono andato all’evento Sneakerness a Milano: migliaia di ragazzini in fila per comprare edizioni limitate e pezzi rari di scarpe da ginnastica. Confesso, non è lo spirito dell’antropologo culturale che mi ha spinto fino lì una domenica pomeriggio, ma una passione adolescenziale non sopita per le sneakers: ancora conservo in una scatola a casa il mio primo paio di Jordan. Mai avrei pensato, però, che un feticcio nerd come quello potesse diventare nel 2018 un autentico status symbol: mentre una madre tirava fuori dalla borsetta tre banconote da cinquecento euro per accontentare il capriccio del suo trap boy (erano delle Yeezy, firmate Kanye West), ho incontrato Jake La Furia, che, di fronte al mio stupore un poco moralista, mi ha così riassunto la faccenda: «I ragazzini non chiedono più ai genitori il motorino per uscirsene di casa e andare a ballare, ma un paio di Balenciaga che hanno visto sui post di Instagram del loro trapper preferito. Tutti quelli che vedi qui rinuncerebbero a uscire per un anno per avere quella roba».

Scarpe in esposizione a Sneakerness, evento internazionale per la vendita e lo scambio di sneakers, che lo scorso 6 e 7 ottobre per la prima volta è arrivato in Italia, alla fabbrica Orobia di Milano.

Ecco, pur sembrando il dialogo tra me e Jake la copia sbiadita e tatuata di una conversazione retorica tra Michele Serra e Francesco Guccini (come si stava bene nelle trattorie di una volta!), c’era qualcosa in quel salone affollato di gente e scarpette a tre zeri che metteva inquietudine, che suonava “osceno” come un pezzo di Young Signorino, il fenomeno già dimenticato del rap game italiano. Forse perché sembrava il set reale di un videoclip qualsiasi di uno qualsiasi di questi ragazzi della scena trap che parla solo di quanto è fico avere quel borsello, quegli occhiali da sole, i soldi, le ragazze (come merce s’intende); forse per quel consumismo iperbolico e minorenne che, più che una “stranezza”, pare solo una grigia sacca di conformismo, il feedback un po’ ebete alle strategie di marketing dei brand di moda (i pischelli hanno abboccato all’amo!); o forse, e più di tutto, perché questo desiderare roba pare essere l’unico contenuto vero dei testi di molte delle canzoni ai primi posti delle classi- fiche degli streaming su Spotify.

Come se non ci fosse niente altro di cui valesse la pena parlare. Questo pimpatissimo feticismo per la merce amplifica in maniera nuova la sproporzione tra un oggetto e il suo valore reale, e lo stesso rischio lo corre anche chi ne rappa. Ovvero, anche i vari trapper rischiano di rappresentare una bolla il cui successo in termini di ascolti e visualizzazioni non coincide con il valore musicale degli stessi. Una volta si chiamavano “mode passeggere” queste bolle. Se così fosse, questa giovane scena è destinata a esaurirsi in fretta – una sneaker gigante vi seppellirà! – vittima di se stessa e dell’obsolescenza del pop, lasciando spazio a chi, come Salmo e pochi altri, dice quello che pensa e pensa quello che dice: così come canta il rapper in Perdonami, e come strilla questo mese dalla nostra cover di Rolling Stone.

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