Un ultimo saluto a Letizia Battaglia, testimone coraggiosa di un ventennio terribile | Rolling Stone Italia
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Un ultimo saluto a Letizia Battaglia, testimone coraggiosa di un ventennio terribile

Nei suoi scatti era possibile svelare un microcosmo inaccessibile a buona parte dell'opinione pubblica del tempo: un "mondo di sotto" pasoliniano, fatto di miseria, accattonaggio come unico metodo di sopravvivenza, lutti, morti violente. Ci mancherà moltissimo

Un ultimo saluto a Letizia Battaglia, testimone coraggiosa di un ventennio terribile

Foto di Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images

La notizia della morte di Letizia Battaglia ha preso in contropiede tutti: politici, giornalisti, magistrati, addetti ai lavori.

Negli scatti di colei che è divenuta celebre come la “fotografa della mafia” (un titolo un po’ ingeneroso, che non rende giustizia al suo sguardo curioso e intelligente su uno spaccato d’Italia difficilissimo da raccontare) era possibile svelare un microcosmo inaccessibile a buona parte dell’opinione pubblica del tempo. Un “mondo di sotto” pasoliniano, fatto di miseria, accattonaggio come unico metodo di sopravvivenza, lutti, morti violente.

Letizia Battaglia è stata soprattutto questo, la testimone coraggiosa di un ventennio delicatissimo, intrappolato tra i due estremi impronunciabili degli anni di piombo e della guerra di mafia.

Il suo approccio alla macchina fotografica è arrivato tardi: aveva già 34 anni quando iniziò a scattare, collaborando con il giornale palermitano L’Ora: siamo il 1969, e il quotidiano fondato dalla famiglia Florio ha già acquisito la fama di simbolo della lotta alla mafia, pagando un prezzo salatissimo per l’ardore mostrato da alcune sue firme – alcuni dei giornalisti che hanno reso grande quella testata, come Cosimo Cristina, Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato, furono assassinati su mandato di Cosa Nostra.

L’anno dopo si trasferì a Milano, dove diede inizio alla sua attività da freelance e, probabilmente senza accorgersene, diede avvio alla sua personale consacrazione, confermandosi come una professionista stimatissima in un settore ancora a trazione iper maschilista, dominato interamente da uomini.

Fece ritorno nella terra dei Vespri nel 1974: qui creò con Franco Zecchin l’agenzia Informazione fotografica. Nel volgere di pochi anni, a fianco di altri grandi testimoni del suo tempo, tra i quali Josef Koudelka e Ferdinando Scianna, si ritagliò un ruolo come osservatrice fedele e accurata di realtà (quelle del clientelismo, del degrado, della violenza) che per lei, nata e cresciuta in quei rioni, erano pane quotidiano.

Tra gli scatti più famosi risalta, ovviamente, quello che mette in scena il cadavere del presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella, un’istantanea degli anni di piombo destinata a radicarsi nell’immaginario collettivo del Paese per lunghissimi anni.

Quella di Letizia Battaglia, però, non era soltanto un’arte “di mestiere”: la fotografia rappresentava, al contempo, un mezzo indispensabile attraverso il quale immortalare lo spirito del tempo di un’epoca in costante chiaroscuro, proprio come la maggior parte della sua produzione, e un piccolo strumento di psicanalisi utile a scavare nel torbido del suo Io, riconnettendosi con una gioventù spensierata perduta per sempre.

«Mi sono accorta con il tempo – racconta Battaglia nel suo libro Mi prendo il mondo ovunque sia – che la fotografia non mi permetteva solamente di raccontare il mondo, ma anche me stessa, la mia inquietudine, l’incanto che mi sembrava perduto. E di cercare l’innocenza e la bellezza», quelle che proprio Palermo, la città che raccontava in primissima linea, le stava rubando. «Un’innocenza che ho trovato nelle bambine. Ogni volta che le fotografavo mi tremavano le gambe perché in loro ho sempre cercato e rivisto me stessa, la bambina che ero sta, con quello sguardo sul mondo soave e greve insieme, pulito. Mi piace immortalare le bambine in quell’età che si affaccia all’adolescenza, con i loro corpi magri, i capelli lisci che scendono sul viso, le occhiaie nere. Quell’età in cui i sogni sono in bilico, possono infrangersi da un momento all’altro sulla realtà. Per questo le bambine che ritraggo quasi sempre non sorridono, hanno perso la gioia com’era successo a me, guardano il mondo con la serietà con cui lo guardavo anche io alla loro età. Ogni volta che fotografo una bambina mi perdo e mi ritrovo, muoio e rinasco ogni volta».

Così è stato per la bambina con il pallone al quartiere La Cala, uno degli scatti più iconici di Letizia Battaglia: una reporter e un’artista straordinaria che ci manca già moltissimo.