Rolling Stone Italia

Un reportage da Maastricht, 30 anni dopo

Siamo stati nella cittadina olandese per seguire la Conferenza sul Futuro dell’Europa e rispondere a una domanda fondamentale: cosa rappresenta, oggi, l'Unione Europea per un giovane?

Credits: Ilaria Potenza

Trent’anni fa, il 7 febbraio 1992, veniva firmato il Trattato di Maastricht. Gli “zoomer” non erano ancora nati, e nemmeno una parte dei millennial. Oggi per le nuove generazioni pensare a una dimensione diversa da quella europea è davvero complicato: per i ragazzi viaggiare con la sola carta di identità, studiare all’estero, avere ovunque accesso a internet sono cose normali, eppure si tratta di piccoli privilegi a cui si è arrivati nel tempo grazie a chi ha immaginato il progetto dell’Ue. A distanza di trent’anni a Maastricht (dall’11 al 13 febbraio) si sono riuniti invece i 161 cittadini estratti a sorte per partecipare al quarto appuntamento della Conferenza sul Futuro dell’Europa.

E quella che potrebbe sembrare solo una romantica coincidenza, in realtà racconta bene la direzione in cui ora l’Europa vuole andare. Dalle intuizioni dei leader alle proposte dei cittadini, dalla bolla di Bruxelles alle comunità locali: restringere il raggio di azione diventa allora l’occasione per migliorare la percezione degli europei sul progetto comunitario, coinvolgendoli direttamente nella sua pianificazione. La Conferenza sul Futuro dell’Europa (CoFoE) è il primo esperimento di democrazia deliberativa collettiva nella storia dell’Ue e funziona in modo semplice: i partecipanti sono stati estratti a sorte, così da raggiungere una rappresentanza eterogenea in termini di genere, età e occupazione.

«Quando mi hanno telefonato per dirmi di essere stato selezionato ho pensato si trattasse di uno scherzo – racconta a Rolling Stone Francesco Indiveri, 29enne di Napoli – l’idea di girare l’Europa per esprimere il mio punto di vista mi ha fatto sentire davvero fortunato». I cittadini hanno al collo un cartellino con la scritta “citizen” in azzurro e li incontriamo durante le pause caffè tra una consultazione e l’altra. Stavolta nei corridoi non ci sono gli europarlamentari a cui chiedere dichiarazioni e pareri, ma studenti, impiegati, professionisti di ogni settore che danno il proprio contributo nei sottogruppi a cui sono stati assegnati.

Il fine settimana a Maastricht è stato dedicato al dibattito sul ruolo dell’Ue nel mondo, un focus a cui si è arrivati dopo i precedenti approfondimenti a Firenze e a Varsaviaeur su ambiente, salute e democrazia. «L’Europa ha bisogno di una gestione unanime della migrazione. Lo proponevo nel 1999, da allora sono passati ventitré anni e il presente conferma l’urgenza di misure concrete nel merito – spiega Guy Verhofstadt, eurodeputato e vice-presidente della CoFoE durante il press point a Maastricht – Ciò che i cittadini produrranno nei gruppi di lavoro sarà quindi da stimolo per le istituzioni europee per non temporeggiare ancora”. In questo contesto si inserisce anche la questione sicurezza che ha animato il confronto tra i partecipanti.

La loro proposta è chiara: nella nuova strategia comunitaria sulla difesa risulta prioritaria la formazione di un esercito europeo. Dopotutto si era iniziato a parlarne già lo scorso novembre con la presentazione del documento ribattezzato “Bussola strategica” e proposto da Josep Borrell, vicepresidente della Commissione e alto rappresentante per la politica estera. «Una futura Forza Armata Congiunta permetterebbe all’Ue di essere percepita come un partner credibile, forte e pacifico sulla scena internazionale – commenta Julia, 28 anni dall’Austria – Ma la nostra proposta è pensata principalmente per scopi di autodifesa».

Questa raccomandazione arriva per giunta in ore cruciali, dato che negli ultimi giorni la possibile invasione dell’Ucraina da parte della Russia è diventata uno scenario sempre più realistico. «Sono stato tra i primi rappresentanti europei a sostenere l’indipendenza dell’Ucraina e poco importa se ora sono nella lista nera di Putin – dichiara Guy Verhofstadt – Solo la piena unità dell’Occidente può impedire questa invasione. Perché se la Guerra Fredda è tornata, l’Europa non può restare a guardare come ha fatto in passato». Ma se le istituzioni e gli adulti coinvolti nei panel sostengono con convinzione la possibilità di un esercito europeo, i millennial si dividono sulla proposta. Come fanno notare Mara Caccavallo, 26 anni, e Claudia Finocchiaro, 22 anni, «durante i nostri confronti emergono naturalmente le differenze di provenienza e di età: quello che può essere importante per qualcuno, non è detto che risulti rilevante per gli altri. Questa esperienza è costruttiva proprio perché restituisce una dimensione di confronto attendibile e vicina alla realtà».

La forza dell’esperimento CoFoE sta nel fatto di essere tutt’altro che una simulazione: i cittadini infatti non si sostituiscono ai politici, ma dimostrano piuttosto con i loro input quanto la democrazia rappresentativa e quella partecipata abbiano bisogno di incontrarsi per funzionare. Secondo Paul, un ragazzo francese impegnato a Maastricht nel ruolo di “osservatore” (vale a dire un supervisore che al termine delle sessioni realizza un resoconto) il modello della Conferenza dovrebbe diventare un appuntamento fisso in quanto da una parte aiuta le istituzioni a tenere alta l’attenzione sugli hot topics, e dall’altra ricorda agli europei che l’Unione non è una struttura fantasma che esiste solo al Tg, visto che ha direttamente a che fare con le nostre vite. «Da quando ho avuto questa opportunità mi sento molto più vicina all’Europa e sono convinta che la CoFoE abbia colmato un vuoto presente anche nel sistema scolastico italiano che non aiuta i ragazzi a conoscerla meglio» – commenta Mara, che con la complicità della sua collega (e ormai amica) Claudia definisce incredibile la possibilità di discutere del futuro comunitario direttamente da Maastricht a trent’anni dalla firma del Trattato.

«Noi non eravamo ancora nate e oggi siamo qui a fare la nostra parte. Per questo al progetto europeo non si può immaginare un’alternativa: siamo state chiamate fra tanti per far ascoltare la nostra voce, in altre parti del mondo succede la stessa cosa?”. E la pensa allo stesso modo anche Job Zomerplaag, 28 enne olandese e fondatore di Studio Europa, un’organizzazione che promuove l’Ue nei Paesi Bassi: «Sono nato a Maastricht e ho vissuto all’estero per studio, ma in nessun altro posto ho percepito l’Europa quanto a casa mia. Non ne faccio un discorso campanilistico, sono però convinto che eventi come quello della firma del Trattato nel 1992 possono davvero cambiare lo storytelling del posto a cui sono legati. Io sono fiero della mia città: provate a pensarla slegata dall’Europa, ci riuscite? Dopo trent’anni tra l’altro siamo ancora qui, con nuovi ragazzi provenienti da ogni stato membro con sogni altrettanto validi. Con competenza e un po’ di fortuna entreremo anche noi nei libri di storia».

L’obiettivo è quindi fare la differenza e non risulta così complicato se si guardano le raccomandazioni finali prodotte dai cittadini al termine della quarta Conferenza sul Futuro dell’Europa. La domenica mattina è solitamente il giorno dedicato alla votazione delle proposte elaborate nei sottogruppi. Tutti i partecipanti si ritrovano in assemblea seduti alla propria postazione: sul tavolo hanno a disposizione un tablet per esprimere voto favorevole o contrario, la lista delle idee messe a punto (in questo caso 46), mentre nelle cuffiette passano le traduzioni di ciò che viene comunicato in sala. Dal palco vengono lette le proposte e con un clic si sceglie l’emoticon del pollice in su o in giù per esprimere la preferenza. Passano solo i suggerimenti che raggiungono il 70 per cento dei consensi. Il meccanismo è intuitivo e a questa dimensione da gamification viene affidata la messa a punto dei contenuti che verranno poi presentati nella prima plenaria al Parlamento di Strasburgo a marzo, alla presenza dei cittadini e dei deputati. Tra gli scranni dell’emiciclo siedono però solo gli ambasciatori degli europei estratti alla lotteria CoFoE, dei rappresentanti insomma a loro volta sorteggiati. Per l’Italia c’è Laura Maria Cinquini, 22 anni, che spiega quanto il rapporto con le istituzioni stia migliorando dopo ogni appuntamento.

«Non vediamo l’ora di discutere nel merito delle raccomandazioni votate qui a Maastricht. D’altronde il tema della migrazione è particolarmente sentito e i cittadini chiedono per esempio la revisione del trattato di Dublino, o l’applicazione di una Agenzia europea che coordini in maniera unificata la gestione alle frontiere”. Per Sofia Benozzi, 20 anni, risulta invece gratificante il modo in cui è stato approfondito il tema in generale: «Finalmente non si è parlato di migranti come fossero il fenomeno di uno show televisivo in cui urlarsi addosso. Sono persone, non un fatto. Noi forse con questo panel riusciremo a ricordarlo a chi ci ascolterà».

Un’altra raccomandazione a cui Sofia tiene molto è quella sull’introduzione di un eco-score da esporre su tutti i prodotti acquistati dai consumatori. Il punteggio verrebbe calcolato dalle autorità Ue in base alle emissioni in fase di produzione e trasporto delle merci, monitorando così in modo concreto ciascuna impronta ambientale. Ha fatto discutere invece il risultato raggiunto riguardo la costituzione di un esercito europeo. Se si apre infatti il testo contenente tutte le proposte, al numero ventidue si legge «raccomandiamo che l’attuale architettura di sicurezza europea sia ripensata come una struttura sovranazionale più efficiente, portando in ultima analisi alla creazione delle Forze Armate congiunte dell’Unione europea. […] Questa unificazione dovrebbe favorire un’integrazione europea duratura e porterebbe a un nuovo accordo con la Nato».

Subito dopo, al numero 23, si continua con «raccomandiamo che una futura Forza Armata congiunta sia principalmente usata per scopi di autodifesa. Un’azione militare aggressiva di qualsiasi tipo è preclusa». Ebbene, la prima raccomandazione è stata bocciata con il 68 per cento dei voti. La seconda invece è passata con il 73 per cento (vale sempre la soglia del 70 per cento). Discutendone con i cittadini, abbiamo avuto l’impressione che con la sola approvazione della funzione di un esercito europeo, rifiutando nello stesso momento la sua effettiva istituzione, venisse meno la possibilità di considerarla una idea capace di mettere tutti d’accordo. Il sillogismo si risolve infine nel commento di Francesco Lucamante, 68 anni “è come se avessimo detto ‘attenzione, non vogliamo davvero un esercito comune e qualora vi venisse in mente di crearlo, preferiamo dirvi almeno a quale scopo usarlo».

Dopotutto ci si confronta da anni nel merito, ma le ragioni per essere divisi superano ancora quelle per arrivare a una quadratura del cerchio. Lo stesso trattato di Maastricht segnò l’inizio di una «nuova fase del processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa». Con la sua firma, la cooperazione tra i Paesi venne rafforzata e allargata a nuovi ambiti in aggiunta a quello economico. Si decise infatti di istituire una politica estera e di sicurezza comune per salvaguardare l’indipendenza comunitaria, preservare la protezione internazionale, ma anche consolidare la democrazia, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani. Si stabilì inoltre di cooperare in materia di giustizia e affari interni: una scelta che apriva la strada all’introduzione di controlli esterni alle frontiere, alla creazione di un ufficio per lo scambio di informazioni tra le forze di
polizia nazionali e allo sviluppo di una politica comune in materia di asilo.

Cosa resta quindi dopo trent’anni di ciò che nel 1992 venne considerata “una nuova fase”? Da una parte la disattesa di certe aspettative. L’anniversario di Maastricht ha visto infatti il presidente francese a Mosca per provare a disinnescare una guerra in cui la potenza militare russa resta una minaccia incombente. E mentre Macron era al Cremlino, il cancelliere tedesco Scholz cercava a Washington una legittimazione internazionale che l’Europa fa ancora fatica a raggiungere. Sulla crisi ucraina, come su quella siriana, libica, sub-sahariana, l’Europa non si dimostra compatta e viene sostituita da vecchi e nuovi protagonisti della scena internazionale. Dall’altra la certezza che l’Euro ha contribuito a creare un nocciolo identitario accettato e difeso dalla maggioranza degli europei. Forse proprio da questa ambizione, siglata anni fa in una città orgogliosamente provinciale e che vive senza correre mai, «per nessuna ragione» come dicono i locali, è necessario ripartire. E lo hanno dimostrato le 40 raccomandazioni approvate sempre a Maastricht, ma dai cittadini stavolta, attraverso le quali ci si propone di dare prospettive inedite agli argomenti sul tavolo di confronto.

Passano per esempio quelle che chiedono di istituire un’agenzia per la gestione del mercato del lavoro europeo, riconoscendo le competenze dei migranti che possono così essere inseriti in contesti professionali differenti. O la proposta di rafforzare il ruolo dei sindacati transnazionali per armonizzare le condizioni di lavoro in tutta l’Unione ed evitare una migrazione economica interna. Tra le raccomandazioni più quotate ci sono anche le indicazioni a modificare il trattato di Dublino con uno giuridicamente vincolante per assicurare una distribuzione equa dei richiedenti asilo, nonché quelle che chiedono l’istituzione di centri di asilo riservati ai minori non accompagnati.

Bocciata invece la richiesta di introduzione di una direttiva europea, ispirata al sistema danese, «che impedisca a ogni stato membro di avere più del 30 per cento di abitanti provenienti da paesi terzi, per favorire una migliore integrazione”. Sono stati respinti anche la formulazione di un protocollo d’azione riguardante i cosiddetti “rifugiati climatici”, cioè coloro che non possono più rientrare nei paesi d’origine perché ormai inabitabili a causa di calamità naturali, e il potenziamento di canali legali e umanitari nell’ambito di un sistema Strade Europee di Sicurezza (Ser) per la lotta alla tratta degli esseri umani. «I cittadini chiedono con forza regole comuni sulla migrazione, ma il rischio di rimanere impantanati in un bias di fondo è molto alto: una legislazione comunitaria in tal senso di fatto esiste già e benché consideri fondamentali esperienze di democrazia partecipata come la CoFoE, al tempo stesso occorre aiutare i cittadini ad arrivare preparati ai momenti di confronto. Solo in questo modo potremmo portare la conversazione a un livello di approfondimento tale da poter essere incisivi».

A parlare è Andreina De Leo, 28 anni e dottoranda all’Università di Maastricht in Diritto di migrazione e asilo, anche lei alla Conferenza in qualità di “esperta”. I professionisti contattati per questo ruolo accompagnano i cittadini nella elaborazione delle proposte. «Nel mio gruppo ci siamo confrontati sull’accesso legale dei migranti in Ue. A tal proposito la Commissione aveva apportato delle riforme nel 2016, poi bloccate dal Paesi del gruppo Visegrad – continua Andreina – Si tratta di un argomento molto importante, che eviterebbe di certo altre morti in mare, al pari della revisione del regolamento di Dublino, la cui ambiguità oggi porta alla creazione di campi profughi in Italia e in Grecia per esempio. Un altro aspetto interessante emerso nei nostri lavori qui a Maastricht è la promozione nelle scuole, già dalle prime classi, di lezioni in cui approfondire la differenza tra clandestini, richiedenti asilo e rifugiati.

Non sono tutti uguali. Si pensi al paradosso dei richiedenti asilo che sono irregolari per forza di cose al loro arrivo, e quindi temporaneamente clandestini, almeno fino a quando la loro domanda di ingresso non viene formalizzata». Il punto di vista di Andreina, che servirà alla CoFoE per migliorare la sua organizzazione, fa comprendere come all’interno dei gruppi si ricrei una vera dimensione comunitaria dove è naturale incontrare anche persone con idee lontane dalle proprie o persino estremiste. «Durante la Conferenza sul Futuro dell’Europa le differenze tra i partecipanti sono tutto ciò che conta: secondo me non essere d’accordo è un buon inizio per le rivoluzioni – conclude Francesco Indiveri – Persino parlare una lingua differente non è un ostacolo, perché sentirsi europei ti spinge a lavorare con il cuore. E quando succede questo, il linguaggio è sempre lo stesso per tutti».

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