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Umberto Bossi, Padanian Rhapsody

Nel clamore generale, il 'Senatur' è stato rieletto alla Camera dei Deputati: ha creato un immaginario kitsch fatto di copricapi cornuti e ampolle sacre, ha sdoganato una volta per tutte la grettezza in politica e ha anticipato schemi, tendenze e retoriche da cui diversi movimenti che oggi definiamo «populisti» o «antisistema» hanno attinto a piene mani. Storia di un maleducato invincibile

Foto di Alberto Pizzoli/Sygma/Sygma via Getty Images

È il 1979: nelle radio Enzo Janacci racconta l’epopea di Bartali, Alberto Fortis canta Milano e Vincenzo e le sigle dei primissimi cartoni animati giapponesi d’importazione trovano posto stabilmente nelle hit parade – tra i singoli più venduti dell’anno figurano la sigla di Capitan Harlock incisa da La Banda dei Bucanieri e l’immortale Goldrake degli Actarus.

Il presidente della Repubblica è Sandro Pertini, eletto dal Parlamento al fine di adempiere alla (difficile) missione di accompagnare un Paese dilaniato dalla violenza nell’elaborazione di due lutti collettivi: il 9 maggio dell’anno prima, gli omicidi di Aldo Moro e Peppino Impastato, entrambi uccisi dai due mali endemici del Paese (il terrorismo di matrice estremista e la mafia) hanno segnato il culmine di un periodo sanguinoso della storia italiana. Da questo punto di vista, l’annata non comincia con gli auspici migliori: il 9 gennaio, un commando neofascista irrompe negli studi di Radio Città Futura, a Roma, ferisce a colpi di pistola cinque conduttrici e dà fuoco ai locali; il giorno dopo, sempre nella Capitale, gli estremisti di destra assaltano una sede della Democrazia Cristiana, e negli scontri con le forze dell’ordine perde la vita il giovane missino Alberto Giaquinto.

Un mese dopo, uno studente di medicina – parecchio – fuoricorso dell’Università di Pavia incontra una persona destinata a sviare, per sempre, le traiettorie del suo destino: si chiama Bruno Salvadori, fa il giornalista, all’italiano preferisce il francese e coltiva il sogno di una Valle d’Aosta autonoma e immune da ogni pretesa del governo centrale. Aderente sin dalla giovane età al movimento politico valdostano dell’Union Valdôtaine attraverso la sezione giovanile della Jeunesse Valdôtaine, in cui era entrato 15 anni prima, dirige il settimanale Le peuple valdôtain e divulga, da anni, il verbo dell’autonomismo. Per il ragazzo (o meglio, l’uomo, dato che parliamo di un trentottenne) è l’incontro che cambia vita, un po’ come quando, per purissimo caso, Paul McCartney incontra John Lennon, insieme al suo gruppo skiffle, i Quarrymen, a una festa parrocchiale a Woolton, il 6 luglio 1957.

La retorica anti–statalista di Salvadori affascina l’aspirante medico sino al punto di indurlo ad abbandonare per sempre gli studi: anche la sua Lombardia, motore industriale del Paese, avrebbe dovuto prendere esempio e pretendere l’indipendenza. Quello studente si chiama Umberto Bossi, ha 38 anni e, senza saperlo, sta per entrare nel secondo tempo della sua vita. Già, perché la vicenda di questo «nasuto, occhialuto, scarruffato» (come lo ha definito Giorgio Bocca) è scandita da due fasi ben distinte tra loro; la prima è quella di un personaggio come se ne incontrano tanti nei bar di provincia: un vitellone perdigiorno che si barcamena tra lavoretti occasionali (barista, installatore di antenne, cantante da balera, a sentire i suoi racconti addirittura insegnante), poco portato per gli studi e privo di un reale ideale da inseguire; la seconda è quella del Senatur, il fautore dei primi comitati autonomisti lombardi che riesce nell’impresa di creare un immaginario triviale, sboccato e antistorico, fatto di ampolle, corna, fiumi sacri e dominato dalla figura di Alberto da Giussano, il condottiero (forse) mai esistito che a Legnano, il 29 maggio 1176, grazie al suo valore, avrebbe deciso in favore della Lega Lombarda la battaglia contro l’esercito di Federico Barbarossa; un immaginario facilone e sconclusionato che sembra uscito dalle tavole di un fumetto d’avventura franco–belga in stile René Goscinny, una favoletta su cui nessuno avrebbe puntato una lira ma ma in cui, contro ogni aspettativa, un numero crescente di persone comincia a riconoscersi.

Nel 1986, a dicembre, Bossi compie il grande passo: l’apertura della prima sezione della Lega Lombarda a Varese, con tanto di sede dove poter lavorare dal cuore della città. L’anno dopo viene eletto per la prima volta nel Senato della Repubblica (mentre il suo sodale, Giuseppe Leoni, riesce ad accomodarsi alla Camera) dimostrando che nell’emiciclo c’è spazio anche per un sogno federalista. Siamo all’epifania di un nuovo tipo di leader, assolutamente irrituale per il panorama politico dell’Italia post–fascista: iniziatore di un nuovo tipo di linguaggio intriso di parolacce e slogan muscolari (ben sintetizzati dal tandem «La Lega ce l’ha duro» e «Roma ladrona»), anticipatore di schemi, tendenze e retoriche da cui, di lì a qualche anno, diversi movimenti che oggi definiremmo «populisti» o «antisistema» avrebbero attinto a piene mani. Il 4 dicembre del 1989, sullo sfondo di un Paese che festeggia la fine della Guerra Fredda, il crollo del Muro di Berlino e la “fine della Storia” teorizzata da Fukuyama in un saggio destinato a fare discutere, nasce la Lega Nord. Bossi è nominato segretario al raduno di Pontida, il pratone della provincia di Bergamo che diventerà il referente simbolico dell’attività della Lega. Nel 1992 viene rieletto, questa volta alla Camera dei Deputati; due anni dopo, quando con il suo fare rozzo e approssimativo ha già sdoganato del tutto la maleducazione in politica e dopo aver superato indenne, nonostante una tangente ricevuta dalla Montedison, il grande punto di cesura di Tangentopoli, Bossi entra in Parlamento per la terza volta firmando un’alleanza elettorale con Silvio Berlusconi, l’altro grande outsider della politica italiana.

Dopo un’esperienza ormai consolidata tra Palazzo Madama e Montecitorio, il Senatur ha ormai ben chiaro il da farsi: vuole far trasformare la Padania nel fortino inespugnabile della Lega, e per riuscirci è necessario intaccare l’immagine del patron di Fininvest, un competitor pericoloso e parecchio tenuto in considerazione dalla grande industria del nord. Per riuscirci, attua il famoso “ribaltone” e stacca la spina al governo, riorganizzando le forze per puntare più in alto: non più federalismo, ma secessione e distacco completo della Padania dall’odiata Roma Ladrona. La radicalizzazione in senso secessionista diventa più manifesta che mai nel 1996, quando l’immaginario leghista vive il suo picco: il 15 settembre viene inaugurata la “festa dei popoli padani”, una manifestazione iniziata due giorni prima da Pian del Re, nel Cuneese, dove nasce il fiume Po: l’acqua della sorgente, “liberata” a Venezia, presso la Riva degli Schiavoni, viene versata per la prima volta nell’iconica ampolla. Si opta anche per istituire un nuovo inno, il Va’ pensiero di Giuseppe Verdi, e per l’occasione viene realizzata una bandiera rossa in campo bianco con l’effige di Alberto da Giussano: è tutto pronto. La retorica anti–meridionale diventa sempre più violenta e stigmatizzante, lo iato che, nel frame narrativo bossiano, separa “noi” (la gente del nord) da “loro” (i meridionali arraffoni) diventa sempre più ampio e i toni, già non propriamente accademici, se possibile si abbassano ulteriormente, fino a scadere in un turpiloquio da osteria: così, nel nuovo lessico leghista, gli immigrati diventano i “bingo bongo”, i meridionali vengono apostrofati come “terroni” e la xenofobia e il razzismo vengono pienamente normalizzati. Nel frattempo, la saldatura tra la creatura bossiana e il sottobosco pro–vita/omofobo prende sempre più corpo – un tratto ben riassunto dalla celebre catchphrase che Roberto Maroni pronuncia nel 2010: «La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni».

In parallelo, Bossi riesce a perseguire anche l’altro, grande obiettivo leghista: la creazione di una classe dirigente fortemente radicata nei territori. Il 20 giugno 1993, Marco Formentini viene eletto sindaco di Milano, prevalendo al ballottaggio sul candidato del centro-sinistra Nando dalla Chiesa (figlio del generale dei Carabinieri Carlo Alberto e fratello della conduttrice Rita), diventando il primo sindaco del capoluogo lombardo di ideologia non socialista dal 1945 e il primo non appartenente al PSI dal 1967. L’anno dopo è il turno di Paolo Arrigoni, diventato presidente della Regione in seguito alla caduta della giunta regionale di minoranza dell’allora presidente Fiorella Ghilardotti (del Partito Democratico della Sinistra). Nel frattempo, due figure iniziano a guadagnare uno spazio sempre più decisivo negli equilibri del Carroccio, assicurandosi la fama di “buoni amministratori”: ci riferiamo, ovviamente, al summenzionato Roberto Maroni, ministro dell’Interno del primo governo Berlusconi e destinato a diventare un inquilino stabile del Pirellone, e Luca Zaia, che nel 1998 inizia a costruire il suo status di “signore del Veneto”, conquistando la provincia di Treviso.

Nel 2002, Bossi raggiunge il suo primo risultato politico degno di nota con l’approvazione parlamentare della “legge Bossi–Fini”, la norma che negli ultimi vent’anni – pur con diverse modifiche e revisioni – ha disciplinato l’ingresso in Italia, l’accesso al mercato del lavoro, la vita e l’espulsione degli stranieri nel nostro Paese. Una norma che subordina l’ingresso e la permanenza in Italia al contratto di lavoro; ha introdotto l’espulsione immediata con accompagnamento alla frontiera; ha dimezzato la durata dei permessi di soggiorno (da quattro a due anni) e ha aumentato (da cinque a sei) gli anni per richiedere la carta di soggiorno.

In quegli anni, diventano celebri alcune sue incursioni occasionali nel gossip, come la presunta storia che lo avrebbe legato, per anni, a Luisa Corna, una laurea in medicina mai conseguita e il celebre “discorso in canottiera” da Porto Cervo. Sono passati più di quarant’anni da quel febbraio del ’79, ma Bossi continua a rappresentare una costante della politica italiana: la sua carriera sembrava destinata al tramonto già nel 2004, stroncata da un ictus cerebrale parecchio discusso che, però, non impedisce al partito di candidarlo come capolista al Parlamento europeo nelle elezioni di giugno, dove viene eletto nelle due circoscrizioni del nord con circa 285mila preferenze. Nel 2012 viene travolto dallo scandalo Belsito ed è costretto a dimettersi, passando il testimone a un giovane leghista di cui non ha mai avuto troppa stima, il 39enne Matteo Salvini, deciso ad abbandonare la via della secessione per propagare il nuovo verbo del nazionalismo, capitalizzando sull’emergenza migranti.

Complice una legge elettorale un po’ bislacca e caratterizzata da una distribuzione dei seggi discutibile (l’effetto «flipper» di cui tanto si è parlato nelle ultime settimane), Bossi è riuscito a farla franca anche questa volta, riuscendo ad assicurarsi un seggio nella Camera in seguito alla riconta del Viminale che, inizialmente, lo aveva escluso.

Tra i leghisti della prima ora, la legacy del Senatur è, tutt’oggi, un portato da difendere con le unghie e con i denti: Bossi è, per largo distacco, il segretario leghista più amato in assoluto, non ha mai visto di buon occhio la svolta nazionalista di Salvini e, con il senno di poi, il suo scetticismo poggiava su basi solide, dato che la percentuale misera raccolta dalla Lega nelle ultime elezioni sembrerebbe prefigurare un ritorno all’assetto territoriale dei primi anni. Come hanno scritto Giampiero Rossi e Simone Spina nel loro saggio Lo spaccone. L’incredibile storia di Umberto Bossi il padrone della Lega, «Seguire Umberto Bossi in tutte le sue scorribande è come fare un giro sulle montagne russe»: prima o poi, i destini del Carroccio tornano a intersecare il suo percorso. La sua storia è quella del maleducato invincibile, il (fintissimo) bifolco che entra in politica quasi per caso e in età avanzatissima per rimanervi 35 anni consecutivi.

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