Tutto quello che c’è da sapere sul plasma iperimmune dei guariti dal Covid-19 | Rolling Stone Italia
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Tutto quello che c’è da sapere sul plasma iperimmune dei guariti dal Covid-19

A che punto è la ricerca? Gli studi che ne smentiscono l’efficacia sono decisivi? La professoressa Anna Falanga, che dirige l’Unità di Immunoematologia al Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ci aiuta a fare chiarezza

Tutto quello che c’è da sapere sul plasma iperimmune dei guariti dal Covid-19

Foto: Igor Petyx/KONTROLAB/LightRocket via Getty Images

Per chi non ha una preparazione sul tema, avventurarsi sul terreno del cosiddetto “plasma iperimmune da convalescente” può essere una faccenda insidiosa. Si tratta della parte liquida del sangue dei pazienti che sono guariti dal COVID-19: secondo numerosi medici e scienziati, essendo ricco di anticorpi, quando è infuso in soggetti malati darebbe notevoli benefici, arrivando addirittura a sconfiggere il virus. Da una parte ci sono voci autorevoli a favore di questo trattamento, ritenendolo una possibile cura semplice, accessibile e a costi ridotti. Dall’altra, però, ci sono illustri studiosi che sembrano affermare l’esatto contrario, mettendo in guardia chi lo considera una panacea. Il clamore mediatico che spesso ha circondato l’argomento, veicolato da molti testimonial eccellenti da ambo le parti, non ha certo aiutato i cittadini a chiarirsi le idee: tra chi parla di nuove bufale in stile Stamina e chi tira in mezzo gli interessi di Big Pharma, è davvero difficile farsi un’opinione. Chi ha ragione e chi ha torto?

La questione, naturalmente, è più complessa di quanto possa apparire, ci spiega la professoressa Anna Falanga, che dirige l’Unità di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Durante la prima ondata della pandemia la città più colpita d’Italia è stata letteralmente in trincea nella lotta al Coronavirus: anche per questo, il suo ospedale è stato tra i primi ad attivare una raccolta di plasma iperimmune tra i pazienti guariti. «Generalmente è un’arma che si usa quando non ce ne sono altre da mettere in campo», racconta. «Quando è arrivata la pandemia, ci ha preso completamente di sorpresa: nessuno sapeva ancora nulla su questo virus e non avevamo terapie specifiche, perciò abbiamo utilizzato tutto ciò che ci sembrava ragionevolmente utile». L’idea di utilizzare il plasma di pazienti convalescenti, che hanno già sviluppato degli anticorpi, e trasfonderlo in pazienti malati, ha una base molto razionale e non è assolutamente nuova. «Lo stesso metodo è già stato usato addirittura un secolo fa per la rabbia e l’influenza spagnola, e più recentemente per l’ebola e la MERS», dice. Il che, però, non vuol dire che necessariamente abbia sempre funzionato: «Nella letteratura scientifica ci sono spesso stati dei dati contraddittori, ma per alcune malattie i risultati sono stati positivi».

Qui occorre fare una piccola digressione per spiegare il metodo con cui nella medicina moderna si stabilisce cosa funziona e cosa no. È necessario uno studio “randomizzato” dove, nel caso del plasma iperimmune, è un computer che assegna in maniera del tutto casuale metà dei pazienti alla somministrazione del plasma e l’altra metà a un placebo, senza che né i medici né i pazienti sappiano chi prende cosa. Lo scopo è capire se i soggetti che hanno ricevuto il plasma sono guariti prima/meglio/con meno effetti collaterali rispetto a quelli che hanno assunto un semplice placebo. I pazienti in questione devono rientrare in rigorosi parametri decisi a priori e in un campione statisticamente rilevante, in modo che i ricercatori possano essere ragionevolmente sicuri che non ci siano fattori che possano falsare le conclusioni raggiunte. Cosa ancora più importante, c’è bisogno di coinvolgere un numero notevole di personale sanitario, per eseguire un rigoroso screening a monte e annotare ogni successo, insuccesso o effetto collaterale dopo la somministrazione del trattamento o del placebo. Il che è quasi impossibile in questo momento, perché a) per reclutare il personale necessario servono fondi che gli ospedali pubblici spesso non hanno, b) serve che gli ospedali non siano intasati da migliaia di persone morenti da salvare, altrimenti nessuno avrà il tempo di monitorare i soggetti dello studio (un ulteriore motivo per restare a casa ed evitare di mettere sotto pressione il sistema sanitario: più persone si ammalano, meno la ricerca va avanti).

Per la comunità scientifica, insomma, è possibile affermare che un trattamento funziona solo quando un numero sufficiente di studi autorevoli è stato pubblicato. Al momento, sul plasma iperimmune sono solo tre in tutto il mondo: l’ultimo compare sul prestigioso New England Journal of Medicine di qualche settimana fa. Tutti e tre sembrerebbero smentire gli effetti benefici del plasma, «ma non si può dire l’ultima parola, perché i soggetti arruolati allo studio erano tutti pazienti abbastanza gravi, una situazione molto diversa da quella in cui stiamo lavorando noi» spiega Falanga. A dimostrazione del fatto che molti credono ancora nella validità del plasma, la ricerca continua. Anche in Italia: proprio dall’ospedale Papa Giovanni è partito uno studio osservazionale a cui stanno aderendo svariati centri in Lombardia, mentre è in corso anche un secondo studio nazionale battezzato Tsunami, promosso dall’Istituto Superiore di Sanità. «Stiamo aderendo a dei protocolli molto specifici perché pensiamo che non sia giusto somministrare il plasma, che noi consideriamo prezioso, in maniera incontrollata» aggiunge. Non c’è ancora la prova definitiva che sia efficace, ma «quello che sappiamo per certo è che non è dannoso: è assolutamente sicuro e non ha effetti collaterali. Lo dimostrano anche gli studi che lo ritengono inefficace». C’è anche chi sta cercando di creare gli anticorpi del plasma iperimmune artificialmente, in maniera standardizzata: sono i famosi anticorpi monoclonali, di cui si sente parlare spesso da quando Donald Trump li ha usati per curarsi dal Covid. Si tratta di un trattamento altamente sperimentale e costosissimo, però, e soprattutto non ancora disponibile per chi non ha la fortuna di essere il Presidente degli Stati Uniti.

La domanda a questo punto sorge spontanea: se nel peggiore dei casi male non fa, perché così tanti centri trasfusionali non fanno scorta di plasma iperimmune? Nel caso del Papa Giovanni di Bergamo, all’inizio era letteralmente irreperibile: «La prima ondata è stata molto drammatica e, quando c’è una tragedia in atto con decine di migliaia di malati, non ci sono ancora abbastanza guariti e convalescenti per averne in quantità sufficiente», racconta Falanga. Successivamente si sono organizzati, cosa tecnicamente piuttosto semplice: il plasma si utilizza già d’abitudine in molte circostanze, dai traumi alla chirurgia. Si raccoglie tramite una procedura poco invasiva chiamata aferesi, in cui il donatore è collegato a un dispositivo che preleva il sangue intero da una vena, lo filtra e ne accumula la parte liquida in una sacca, mentre globuli rossi, globuli bianchi e piastrine tornano in circolo nel suo corpo. «I macchinari per la plasmaferesi già li avevamo, ma la cosa più complessa è stata mettere in piedi la catena di attività correlate», spiega. «Per un’operazione del genere su larga scala ci vuole una batteria di persone che scriva una mail a tutti i guariti, che controlli chi è idoneo a donare, che faccia un secondo screening dettagliato, che effettui prelievi di sangue per escludere altre malattie virali come l’epatite, che verifichi che la quantità di anticorpi presenti sia abbastanza alta…». Centinaia di specialisti, letteralmente. «Sono operazioni delicatissime, che non si possono sbagliare: devono essere effettuate da personale sanitario specializzato».

Uno dei motivi per cui c’è ancora chi non si attiva in tal senso, in effetti, potrebbe essere proprio questo: non perché non creda che possa essere utile, ma perché il dispiego di forze è fin troppo imponente per alcune realtà. E a differenza di quanto molti pensano, non è neanche un’operazione così a buon mercato: anche se le apparecchiature sono già disponibili, i donatori anche e la procedura esiste da molto tempo, tra i costi del personale, dei test, delle visite, delle ore sottratte ad altro lavoro e via dicendo, incide parecchio sul bilancio di un’azienda sanitaria. «Non tutti gli ospedali italiani sono in grado di affrontare queste spese o di ampliare il personale», dice Falanga. «A Bergamo, sull’onda dell’emotività e delle circostanze, c’è stata una risposta enorme. Ma devo ringraziare tutti i medici volontari che sono venuti ad aiutarci, gli infermieri e i tecnici di laboratorio che hanno dato disponibilità a fare del lavoro extra, i borsisti e tutti i giovani neolaureati assunti con contratti di libera professione».

Alla prima chiamata alla donazione di plasma lanciata dal Papa Giovanni XXIII, la primavera scorsa, sono state registrate più di 2.000 adesioni, seguite da altre 1.000 questo autunno. Nonostante le scorte accumulate, però, con la seconda ondata le sacche si stanno esaurendo, ragion per cui la professoressa Falanga consiglia ai guariti di fare questo gesto, se possono, anche per favorire gli studi clinici in corso. La procedura di aferesi dura circa 45 minuti ed è sicura e indolore: può donare chi ha tra i 18 e i 65 anni di età, si è negativizzato di recente, non ha mai ricevuto una trasfusione di sangue e (se donna) non ha mai avuto gravidanze, anche non portate a termine. Esistono ormai centri abilitati nella maggior parte delle regioni italiane, soprattutto in quelle del nord, particolarmente colpite dalla pandemia. Anche i medici degli ospedali che non lo raccolgono o che non ne hanno disponibilità immediata, però, possono fare richiesta di plasma iperimmune tramite le apposite reti di coordinamento.

Ovviamente, come abbiamo già ribadito più volte, non si tratta necessariamente di una soluzione universale né di una cura che funziona per tutti; anzi, per ora ci sono più domande che risposte. «Al momento abbiamo sicuramente più informazioni di prima e una gamma di farmaci che proviamo a utilizzare, ma una terapia mirata e verificata ancora non c’è» ammette Falanga. «Quando avremo i vaccini contro il COVID-19, potrà esserci una prevenzione: ma quando ci si ammala, qualcosa bisogna fare. Stiamo ancora procedendo per tentativi, tant’è che stanno tuttora morendo tantissime persone. Non possiamo che agire sulla base di ciò che ha funzionato in precedenza con altri virus: nel caso del plasma, mettendo a disposizione l’unico rimedio che in questo momento può essere considerato specifico».