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Trump-Putin, l’opera buffa di due venditori di fumo

L'incontro di Helsinki, che non ha prodotto nemmeno mezzo foglio di carta da firmare in favore di telecamere, è stata la seconda più grande operazione di marketing di giornata dopo Cristiano alla Juve

Trump e Putin, Foto Getty

C’era un tempo quando i vertici tra i capi di Stato erano una faccenda lunga, seria e noiosa, preceduta da mesi e mesi di colloqui di consiglieri e diplomatici che stilavano le bozze dei documenti, discutevano sulle virgole e preparavano i dossier con i margini di compromesso possibili, entro i quali i loro principali si sarebbero mossi in base alla loro abilità negoziale. Tempi superati, come le macchine da scrivere sulle quali venivano battuti i documenti da firmare alla fine del summit. La diplomazia 3.0 lavora per le telecamere e i social, e il fatto stesso di una stretta di mano appare un risultato molto più cospicuo di eventuali accordi strategici da firmare. L’incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin a Helsinki, già definito “storico” dai giornalisti, appare un esempio quasi classico del genere.

Si prendono due Paesi che – come entrambi i leader non hanno mancato di ribadire prima e durante il vertice – “non hanno mai avuto delle relazioni bilaterali in uno stato peggiore”. Si prendono due leader in una certa difficoltà: Trump deve difendersi dalle accuse del Russiagate, nell’ambito del quale proprio alla vigilia del vertice sono stati incriminati 12 agenti russi, Putin deve dimostrare ai suoi elettori, e al resto del mondo, di non essere isolato,di non aver pagato nessun prezzo per l’annessione della Crimea, le guerre in Ucraina e in Siria e l’agente nervino in Inghilterra. L’ultimo vero vertice bilaterale tra i presidenti della Russia e degli Stati Uniti risale infatti addirittura al 2010, e aveva come protagonisti Barack Obama e Dmitry Medvedev, e Putin non aveva incontrato un capo di Stato americano in visita “dedicata” dal 2005, quando aveva parlato con George W. Bush di argomenti come l’Iran, la Corea del Nord e lo stato della democrazia russa (nessuno di questi dossier ha fatto da allora particolari progressi). Da allora, Putin ha incontrato Obama e Trump nell’ambito di vari appuntamenti multilaterali, come i G20 e i vertici asiatici, di corsa, per discutere rapidamente di affari correnti.

I tempi dei vertici di svolta tra Reagan e Gorbaciov, con scenografie sontuose e solenni firme di accordi di disarmo, sono ormai lontani. Alla vigilia dell’incontro a Helsinki perfino il segretario di Stato Mike Pompeo ammetteva di non sapere di cosa avrebbero parlato i due presidenti, mentre democratici e repubblicani a Washington esprimevano timori che a fare affidamento al suo vantato talento di negoziatore Trump sarebbe caduto facile vittima dei trucchi di Putin, molto più esperto e dotato di un maggiore sangue freddo. Putin però aveva un tale bisogno di stringere la mano a Trump sotto l’occhio delle telecamere da aver mandato giù sia l’affermazione del presidente americano che l’incontro con il leader russo sarebbe stato “la parte più facile” del suo tour europeo, che l’incriminazione dei 12 agenti russi in America e le nuove rivelazioni sull’avvelenamento dell’ex spia di Mosca in Inghilterra. E così si è assistito all’incontro un po’ surreale tra i leader di due Paesi che ufficialmente si considerano a vicenda il nemico numero 1, che si sono scambiati cannonate di sanzioni e che ormai non hanno quasi nulla in comune.

Ovviamente, è possibile che nelle due ore trascorse a quattr’occhi (solo con i rispettivi interpreti) nel palazzo presidenziale di Helsinki la strana coppia avesse stipulato un cruciale patto segreto di cui verremo a sapere nei prossimi giorni o mesi, e che Trump abbia rivenduto a Putin l’Alaska ceduta dagli zar agli americani. Formalmente però il risultato è stato pari a zero, nemmeno un foglio di carta pieno di buone intenzioni da firmare sotto gli occhi delle telecamere. L’unico passo concreto, a giudicare dalle ammissioni degli stessi interessati, è stata la proposta di formare un gruppo di lavoro congiunto dei grandi imprenditori russi e americani, forse nella speranza che le lobby riusciranno laddove fallisce la diplomazia. Su tutti i problemi spinosi – la Crimea annessa, il deal nucleare con l’Iran, gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina, le interferenze russe nelle elezioni americane, il gasdotto Nord Stream 2 – i due leader hanno ribadito sostanzialmente le proprie posizioni, più o meno diametralmente opposte. Poi si sono concessi con molta disponibilità alla stampa, rispondendo a domande non tanto su dossier concreti quanto sulla loro relazione personale, e sui miti mediatici come il fatto che Trump durante una sua visita a Mosca per il concorso di Miss Universo sarebbe stato reclutato dall’ex Kgb. Molti sorrisi, qualche battuta, tante rassicurazioni sull’essersi trovati bene l’uno con l’altro, il pallone del Mondiale in regalo all’ospite americano e una chiacchierata sulle auto made in Usa (dai contenuti ignoti). Perfino lo status dei due interlocutori è rimasto imprecisato: Trump è rimasto colto di sorpresa dalla domanda se Putin fosse un nemico o un alleato, cavandosela con un “è un avversario, e lo dico come complimento”, il capo del Cremlino ha rivelato che non si fida di Donald, come lo chiama, e Donald non si fida di lui, perché “nessuno si fida di nessuno, non bisogna fidarsi, rappresentiamo ciascuno gli interessi del proprio Paese”.

Un incontro tra due pragmatici disincantati, ed entrambi non hanno nessun problema ad ammettere che “non si aspettavano molto” dal summit con l’avversario. Con poche attese è facile non restare delusi, e i tempi in cui George W. Bush guardava Putin negli occhi per “vedere la sua anima” appaiono di un’ingenuità quasi commuovente. Trump ha già sperimentato con Kim Jong-un che tutti si ricorderanno del fatto stesso che ha incontrato faccia a faccia un nemico, e non se gli ha fatto cambiare idea, e torna a casa ancora più convinto di essere il venditore supremo, il maestro del “deal”, in grado di entrare nella gabbia di qualunque tigre.

Putin ha mostrato che cacciarlo dai tavoli internazionali non è così facile, e a sole 24 ore dalla conclusione della riuscita operazione immagine dei Mondiali in Russia ne piazza una seconda, esibendosi come interlocutore alla pari, bonario e rilassato, con il leader della potenza avversaria. Le sanzioni reciproche restano, le guerre dove Usa e Russia combattono a un millimetro dallo scontro diretto pure, le indagini sui sospetti che Putin non solo avesse desiderato, come ha candidamente confessato, la vittoria di Trump (“semplice, voleva migliorare i rapporti con la Russia, perché non avrei dovuto volerlo come presidente”), proseguono, e le macchine militari e politiche dei due Paesi continuano a funzionare l’una contro l’altra.

Ma non ha nessuna importanza, e i critici di The Donald – l’ex capo della Cia Brennan l’ha accusato nientemeno che di “tradimento” per il solo fatto di aver incontrato Putin – resteranno inascoltati perché prendono ancora troppo sul serio la politica. L’immagine è tutto, il contenuto nulla, la storia si (ri)scrive con i tweet e ciascuno può raccontare ai rispettivi elettori di averle suonate al cattivo. Un capolavoro di due maestri del marketing, da inserire nei manuali della politica del like baiting.

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