“Te faccio ‘n classicone”: un comizio boutique di Carlo Calenda | Rolling Stone Italia
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“Te faccio ‘n classicone”: un comizio boutique di Carlo Calenda

Aneddoti vanziniani, invettive, performance da stand-up comedian. Siamo stati a un comizio dell’ex ministro e abbiamo capito cos’è il calendismo: una forma di protesta chic, la Apple dell’antipolitica

“Te faccio ‘n classicone”: un comizio boutique di Carlo Calenda

Foto: Antonio Masiello/Getty Images

L’unità di misura fondamentale della campagna elettorale romana di Carlo Calenda sono i suoi micro-comizi. Queste adunanze boutique non sono tenute mai in piazze o parcheggi, come accade per le arringhe di favoriti come Enrico Michetti (Fratelli d’Italia) o Roberto Gualtieri (Partito Democratico), ma in piazzette o tutt’al più slarghi, con la partecipazione di un centinaio di persone, perlopiù calendini della prima ora, gualtierini indecisi in vena di emozioni forti e qualche complottista della Roma bene. Come a tutti gli stand-up comedian osservativi anche a Calenda, prima di chiudere la battuta, piace guardare ciascuno spettatore negli occhi, far calare il silenzio, e attaccare con classici del genere come Avete mai notato che Alitalia andava venduta alla Lufthansa? o Avete mai pensato che pe la malamovida ce vorrebbe ‘na Daspo urbana?. Parafrasando Proust, le grandi folle le lascia ai candidati privi di fantasia.

Un caso da manuale di micro-comizio è stato rappresentato da quello di Ponte Milvio. Ponte Milvio è il collegamento – risalente al II secolo a.C. – tra gli attuali Parioli del centro (Parioli e sotto-parioli, cioè il Flaminio) e i Parioli di periferia (Farnesina, Vigna Clara e Fleming). Proprio su questo ponte, nella notte precedente a una decisiva battaglia, per incoraggiamento, all’imperatore Costantino apparve in sogno una croce. Non sappiamo che abbia sognato Calenda la notte prima del 22 settembre, ma deve essere stato qualcosa di grosso, per come era in forma.

Dagli altoparlanti i Måneskin cantano quello che sembra l’inno della campagna calendiana: Siamo fuori di testa ma diversi da loro. Poi jazz fino all’apertura del microfono quando, incorniciato da San Giovanni Battista da una parte e da Gesù Cristo dall’altra (le statue barocche di Francesco Mochi), dalle acque del Tevere sembra (visto che, in verità, sta venendo a galla dal traffico del Lungotevere) emergere Carlo Calenda, con la grazia di una Venere fluviale che non nasca da una conchiglia, ma da uno scooterone; e che non si ponga la mission di proteggere la grazia e la bellezza, ma di arrivare al ballottaggio.

Abbigliamento del dott. ex min. europarl. Carlo Calenda: Lacoste blu di ordinanza con coccodrillo coperto dalla spilletta elettorale, pantaloni jeans con le pince, sneaker Saucony dal chilometraggio fuori garanzia. Per scendere in campo Calenda ha rinunciato, infatti, a due delle cose che gli sono più care: la prospettiva di guadagnare più di un sindaco di Roma (“Ve garantisco che percepivo de più prima”) e il coccodrillo dell’imprescindibile maglietta. Così imprescindibile che, all’arrivo, a logo coperto, stremato dal traffico e impensierito dal successivo micro-comizio previsto presso il lontano Corviale, lo avevano riconosciuto solo in pochissimi calendini della prima ora. Sia detto che questi si distinguono da quelli più occasionali perché non indossano le magliette dal copy Piuma o Fero, distribuite dai volontari e ispirate alla nota diatriba primaverile con Er Faina ma, a loro volta, Lacoste blu con il lucertolone eclissato. Chissà che qualcuno, invece che nasconderla, non si sia strappato quella decorazione dal petto, magari per contribuire alla causa dei coccodrilli eventualmente danneggiati durante l’applicazione rituale della spilletta da parte del leader (che è un po’ il Bris dei calendini), magari con la stessa determinata rassegnazione con cui le madri di famiglia del ’35 rinunciarono alle proprie fedi nuziali per aderire a Oro alla Patria (qui sarebbe Rettili a Carlo).

In tutti i micro-comizi, che siano in quartieri come questo o nelle estreme propaggini del territorio comunale, che batte a tappeto da mesi, Calenda è accortissimo ad adoperare un’alternanza magistrale di lingua romane e politichese-corporate, l’idioma che ha caratterizzato il Calenda della campagna per le europee nel Nord-Est e che oggi sta lasciando sempre più spazio a un Carlo ancestrale, empatico e spontaneo. Qui si noti: 1) nel periodo Sviluppo Economico Calenda sembrava quasi di Milano, più o meno come Tommaso Paradiso, nei primi anni dei Thegiornalisti, sembrava di Bologna; 2) oggi, per la sua inclinazione naturale al dinamismo (come personalità junghiana potrebbe essere l’argomentatore), Calenda tende a esagerare il romanaccio coi ricchi e il milanese cogli umili.

“Dicono che so’ nato ai Parioli ma che nun è vero nun lo dico più, così almeno ai Parioli me votano” – “Però che Gentiloni che è ‘n conte con ‘n palazzo a via Nazionale nun lo dice nessuno”.

A metà intervento la metamorfosi nel romanaccio sembra completarsi e, una volta cominciata la raffica di jokes dialettali, non ce n’è più per nessuno: “Se in un programma elettorale nun dici quanto voi spenne è come ‘a dichiarazione de Miss Universo quanno vince e, piagnendo, dice che vole la pace ner monno” – “L’unico modo de prennese Roma è gestirla in modo pratico. Nun fai liste in cui ce stanno dai nazisti dell’Illinois alli comunisti per il mojito” – “Dopo che fai la differenziata che fai, te la magni?”.

Calenda è fatto così. I detrattori diranno puntualmente che parla per aneddoti alla Adriano Panatta se Adriano Panatta avesse saltato di peso la carriera sportiva e le best practice amatorie degli anni d’oro. Per altri, invece, sta conquistando sempre più il fascino di un orsetto che vorrebbero stringere forte forte.

A ponte Milvio ad andare in particolare solluchero sono le signore locali, accorse da Vigna Stelluti e Fleming, da un lato e dall’altro di Corso Francia, fra cui Calenda programma, una volta eletto, di costruire un collegamento almeno pedonale che sarebbe il ponte sullo stretto di Messina di Roma Nord. Dopo questo annuncio nessun altro tema all’ordine del giorno trova più lo stesso riscontro di pubblico, neanche i bis dell’invettiva contro l’establishment romano del triumvirato Bettini, Mancini, Astorre. Con quel ponte si riavvicineranno nuclei familiari separati da chilometri di curve di asfalto, quando in linea d’aria sarebbero solo poche decine di metri; si riattizzeranno faide plurigenerazionali sopite per problemi di viabilità; soprattutto, si ottimizzerà la logistica di decine e decine di colf, che non dovranno più praticare pericolosissimi attraversamenti quasi autostradali nel corso delle transumanze giornaliere dalla Signò A alla Signò B. Ma Calenda è bravo a dire anche diverse cose più vicine alla sensibilità degli ultimi: “Mi madre fa la regista ma nun è Spielberg che gira co’ sei elicotteri”.

La nuova moodboard, scaturita dall’unione tra il vecchio Carlo ruvido e tecnico e il nuovo Carlo pragmatico e socievole, ha tirato fuori un capolavoro antropologico: Calenda ristoratore vanziniano.

Duttile come nessun altro dei suoi principali avversari (che tendono a imitare solo sé stessi) Calenda ha smesso i panni dell’ex ministro iperattivo ed efficientista e ha adottato il fisico e l’eloquio del tipico esercente del centro, tanto amato dal generone romano perché, dopo anni e anni di crisi, riesce a ricordargli dei tempi in cui aveva un tavolo sempre prenotato, con tanto di cognome inciso sulla placca in ottone. Solo così Calenda è in grado di affrontare le questioni più impellenti della città con lo stesso pragmatismo con cui un oste del Flaminio gestisce un fornitore ortofrutticolo: A’ Riché ma che ‘sti carciofi me li hai portati già ca’a muffa?.

Al termine di ogni micro-comizio arrivano puntuali le domande del pubblico. Anche per la più problematica, Carlo ha sempre una risposta cordiale e confortante. Stai comodo avvoca’, ce penso io. Te faccio ‘n classicone. È ammirevole la sua capacità di toglierti d’impaccio tra un improbabile spaghetto con le vongole (Raggi) e la solita carbonara con la panna (Gualtieri), per tacere dell’abbacchio bruciato (Michetti): Gricia pe’ tutti. E ti pare di vederlo che si inchina verso il pubblico, indietreggiando lentamente, col cappello in mano, godendosi gli applausi ma soprattutto le risate e dicendo tra sé e sé che in fondo non è vero che la politica è l’unico spettacolo che, per quante volte tu lo veda, non sai mai come andrà a finire: ‘No spazietto pe ‘n tiramisù se trova sempre.

Emerge finalmente cosa sia il calendismo, e cioè una forma di protesta chic grazie alla quale, se affermi di non sentirti rappresentato dalla classe dirigente romana e laziale attuale, non sembri né scemo (Movimento 5 stelle) né cafone (Fratelli d’Italia) né passé (Pd). Calenda in effetti è la Apple dell’antipolitica, la lotta di design. Ha fatto per l’antipolitica quello che l’azienda di Cupertino ha fatto con l’iPod: ha preso una cosa che c’era già e che facevano già in tantissimi, se non tutti, e l’ha perfezionata fino a stabilirne un nuovo standard qualitativo, raffinandone l’interfaccia, e facendola entrare nelle case di tutti, soprattutto quelle a partire da cinquemila euro al metro quadro, luminosissime, con doppio ingresso e triplo affaccio sulla città che, tranquillamente, decade.