Siamo una Repubblica fondata su femminicidi e stragi familiari, e un po’ ci piace | Rolling Stone Italia
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Siamo una Repubblica fondata su femminicidi e stragi familiari, e un po’ ci piace

Alessandro Maja, l'assassino di Samarate narrato come un consumato professionista e una persona mite, è l'ennesimo esempio dell’assurda tendenza – tutta italiana – a empatizzare con l’omicida e non con la vittima

Siamo una Repubblica fondata su femminicidi e stragi familiari, e un po’ ci piace

Che il giornalismo italiano abbia un (serio) problema nel racconto dei drammi familiari che, periodicamente, tornano a sconvolgere l’opinione pubblica non è una novità.

L’ultima conferma di questa (triste) regola non scritta è arrivata all’indomani della strage che si è consumata a Samerate, un comune in provincia di Varese, nella mattinata dello scorso 4 maggio, quando Alessandro Maja, 57 anni, ha ucciso a martellate la moglie Stefania Pivetta e la figlia Giulia. La terza vittima dell’aggressione, il figlio Nicolò, è invece riuscito a scappare allertando i vicini, e attualmente lotta per la vita all’ospedale di Varese.

Una strage da film dell’orrore, talmente cruenta ed efferata da apparire irreale. La tragedia nella tragedia, però, è stata offerta dai titoli che alcuni quotidiani hanno scelto per raccontare questo sterminio, un po’ nell’ottica di tracciare un profilo di Maja, una po’ allo scopo di esaltarne le virtù e mostrare un qualche tipo di deferenza nei suoi confronti. Titoli accomunati da una caratteristica inquietante: l’enfatizzazione del tratto del “consumato professionista”, non l’assassino colpevole di un massacro, ma l’architetto – in realtà un geometra con un giro d’affari piuttosto esteso – di fama internazionale con uno studio avviatissimo sul Naviglio pavese a Milano.

Si passa così dal ritratto di un «Professionista affermato e uomo mite» alla fama consolidata di cui lo stimato tecnico godeva all’interno di quei «Caffè milanesi» in cui è cresciuto e si è formato, fino all’elogio delle spiccate abilità artistiche e umane di Maja (probabilmente, frutto di un veloce copia e incolla dalla bio presente sul sito della sua azienda, attualmente oscurato), come ad esempio «l’uso ardito del colore» e un tratto di genialità così evidente da renderlo «un vulcano di idee, originali e stravaganti, ma concrete e funzionali».

Altre testate hanno invece pensato che fosse utile concentrarsi sulla presunta vita tranquilla o integerrima dell’autore di violenza, inciampando in una delle leggerezze più frequenti e incomprensibili della cronaca nera: l’assurda tendenza ad empatizzare con l’omicida invece che con la vittima.

Insomma, il profilo che finisce per emergere dalla lettura di alcuni giornali è quello di un padre amorevole e di un lavoratore ostinato che, con impegno, sacrificio e abilità ha costruito una famiglia da Mulino Bianco, portato alla follia omicida dalla paura di essere lasciato solo (a quanto pare, Pivetta stava progettando di divorziare); ci sarebbe quasi da ridere, non fosse altro che parliamo di un assassino che come tale da andrebbe descritto.

I tempi sembrano maturi per un cambiamento radicale di prospettiva anche perché, ahinoi, drammi di questo tipo sono piuttosto frequenti. Per semplicità d’analisi, consideriamo soltanto i femminicidi compiuti nell’ultima settimana: qualche ora prima delle triste fine toccata a Stefania Pivetti e Giulia Maja, a Frosinone era stato rinvenuto il corpo senza vita di una donna di 36 anni, Romina De Cesare, uccisa con diverse coltellate dall’ex compagno, un 38enne originario della provincia di Isernia. Il 2 maggio una sorte simile era toccata ad Alice Scagni, una 34enne di Quinto, in provincia di Genova, stroncata con almeno 17 fendenti dal fratello maggiore, Alberto. Nel mese di marzo le vittime sono state addirittura nove: anna Borsa, 30enne uccisa con un colpo di pistola alla testa nel salone da parrucchiere in cui lavorava a Pontecagnano Faiano, in provincia di Salerno, e poi Vincenza Ribecco, uccisa proprio l’8 marzo a San Leonardo di Cutro, in provincia di Crotone, “punita” per essersi rifiutata di aprire la porta al marito; poi c’è stato il caso di Anastasiia Bondarenko, morta carbonizzata in un appartamento di Napoli, delitto per cui è stato fermato il compagno. Uno degli episodi che ha trovato maggiore spazio sui quotidiani è poi quello di Carol Maltesi, brutalmente uccisa durante un gioco erotico dall’ex compagno Davide Fontana, che ha poi fatto a pezzi il corpo della 26enne, rinvenuto da un passante all’interno di alcuni sacchi della spazzatura in un dirupo di Borno, in Valcamonica (in quel caso, però, a venire sottolineata era soprattutto la sua vicenda professionale – piuttosto breve e recentissima – nel mondo del porno).

E poi Tiziana Gatti, uccisa dal genero a Castelnovo Sotto, nella Bassa Reggiana, e Viviana Micheluzzi, vittima di un colpo di pistola alla nuca gentilmente somministratole dal marito in un bosco nei pressi di Castello Molina di Fiemme, in Trentino. Il tempo passa, ma le donne continuano a morire sotto i colpi di uomini che non le vogliono lasciare – una scia di sangue che non tende a diminuire e che, dall’inizio dell’anno, conta già oltre 20 casi in Italia. 

Statistiche che fanno il paio con quelle relative ai massacri in famiglia: un rapporto diffuso da Eures a inizio settimana, in dieci anni in Italia ci sono state 131 stragi familiari con 287 vittime: 9 volte su 10 i responsabili sono uomini, mentre nel 56% dei casi la vittima è una donna.

Insomma, usando un’iperbole e un po’ di provocazione, potremmo spingerci a ritenere che siamo una Repubblica fondata sui femminicidi e le stragi familiari: forse è il momento di approcciare a queste tematiche con la serietà che meritano.