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Siamo pronti a un altro Trump contro Biden?

Nonostante varie ipotesi alimentate dalla stampa, scenari alternativi più o meno realistici, dubbi sulla statura democratica dell'uno e la carta d'identità dell'altro (ma non è che il primo sia tanto più giovane), sarà un remake delle elezioni del 2020. Ecco a che punto siamo

Siamo pronti a un altro Trump contro Biden?

Donald Trump e Joe Biden

Foto: Anna Moneymaker/Getty Images; Phelan M. Ebenhack per The Washington Post/Getty Images

Sarà un remake delle elezioni del 2020: nonostante varie ipotesi parallele alimentate dalla stampa e, forse, dalle nostre fantasie, scenari alternativi più o meno realistici, dubbi sulla statura democratica dell’uno e la carta d’identità dell’altro (ma non è che il primo sia tanto più giovane), non c’è stata storia, e alle prossime Presidenziali americani, in programma il 5 novembre, gli americani sceglieranno di nuovo tra Trump e Biden. Rispettivamente Repubblicani e Democratici non sono riusciti a – o i loro elettori non hanno voluto – esprimere una leadership diversa, pure nella convinzione che si tratta di politici che, per motivi diversi, non se la passano benissimo.

La certezza è di stamattina, quando sono usciti i risultati del cosiddetto Super Tuesday, il martedì di fuoco in cui gli elettori di quindici Stati su cinquanta scelgono il loro candidato ideale a seconda del partito di riferimento. Il meccanismo è quello delle primarie, una specie di “elezione” interna dalla quale, attraverso un sistema di delegati assegnati stato per stato, i partiti stabiliscono il loro nome per la Casa Bianca. «Se si chiama Super Tuesday ci sarà un motivo», ha detto Trump parlando della sua vittoria: è vero, ma non è perché qualcuno un secolo fa aveva previsto il suo trionfo; semmai è perché, per il numero e il tipo di Stati che coinvolge (ci sono, tra gli altri, giganti come la California, e poi Alaska, Minnesota, Colorado e Texas), segna un passaggio chiave nell’indirizzare l’esito delle primarie. Anche stavolta, visto che come da sondaggi Trump e Biden hanno vinto ovunque, e non hanno più ostacoli tra loro e la candidatura ufficiale. Il sistema infatti prevede l’assegnazione di un certo numero di delegati al congresso del partito per ogni Stato in cui si vince: una volta raggiunta la soglia, è fatta. E, come si dice, per entrambi manca solo la certezza matematica, che potrebbe arrivare già entro marzo, con le prossime tornate elettorali.

Certo, al contrario di quanto ci si aspettasse non hanno stravinto. Trump ha perso a sorpresa nel Vermont contro Nikki Haley, la candidata repubblicana che fin dall’inizio ha espresso una forma di conservatorismo meno antisistema, e che però non scalda il cuore degli statunitensi. Finora l’aveva battuto solo nello Stato di Washington, l’unico dov’era favorita. I (relativamente) buoni risultati la invogliano a continuare, o magari a correre da indipendente, ma il suo destino sembra scritto. Come sembra scritto quello di Biden, che nel deserto dei Democratici ha vinto ovunque, pur con la macchia delle Samoa, dove è stato sconfitto da uno sconosciuto imprenditore del Maryland, tale Jason Palmer. Ma le Samoa sono un territorio e non uno Stato, e i suoi cittadini esprimono la propria preferenza attraverso i delegati delle primarie – non voteranno a novembre, ergo l’esito non è così grave.

Per cui, nonostante qualche piccolo inciampo qua e là, sembra tutto deciso. Trump, nel dubbio, ha alzato ancora i toni, dicendo che «il prossimo 5 novembre sarà il giorno più bello della storia» e che «il mondo oggi ride di noi», riferendosi a Biden come presidente («il peggiore della storia», di nuovo). Lui gli ha risposto definendolo «un pericolo per la democrazia degli Stati Uniti», e in effetti alcune scelte fanno discutere. Come quella, tra le tante, di aver pubblicato una serie di immagini che lo ritraggono con esponenti della comunità afroamericana, come a sottolineare una vicinanza tra lui e i neri; non fosse che erano state create con l’intelligenza artificiale. E la stessa Haley ha biasimato i suoi modi scorretti rispetto all’intenzione che millanta di unire l’America, rimproverandogli come «l’unità non si raggiunge solo a parole, ma nei fatti». Intanto, anche le analisi di voto descrivono l’elettorato di Trump come più anziano, evangelizzato ed estremista rispetto al 2020. Solo il 10 per cento dei suoi sostenitori, pare, si definisce «moderato». Più che unire, la sua forza è quella di dividere. Ed è qui, in un clima ancor più polarizzato di quattro anni fa, che si giocherà il prossimo Trump contro Biden.