Sea-Watch, non c’è legge se non c’è giustizia | Rolling Stone Italia
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Sea-Watch, non c’è legge se non c’è giustizia

Poche ore fa la nave dell’ong tedesca è entrata nelle acque italiane, dove verrà accolta dai carabinieri schierati da Salvini. Nel frattempo, il paese ignora chi è in mare da giorni e si nasconde dietro alle leggi, anche se ingiuste

Sea-Watch, non c’è legge se non c’è giustizia

La nave Sea-Watch 3

Foto via Twitter

“Basta, entriamo. Non per provocazione ma per necessità, per responsabilità”. Con questo messaggio attorno alle due del pomeriggio la Sea-Watch 3, nave dell’ong tedesca che pratica ricerca e soccorso in mare, è entrata nelle acque italiane. Una svolta, dopo i 14 giorni passati al largo di Lampedusa dall’imbarcazione, che batte bandiera olandese e ha a bordo 42 migranti soccorsi su un gommone nel Mediterraneo. “So cosa rischio, ma sono responsabile delle persone che ho recuperato in mare e che non ce la fanno più. La loro vita viene prima di qualsiasi gioco politico o incriminazione. Non bisognava arrivare a questo punto”, le parole dalla capitana della nave Carola Rackete, che a soli 31 anni si è assunta l’onere di aver “varcato il Rubicone”.

In attesa che i carabinieri accolgano al porto la nave e i suoi ospiti, la comunicazione dell’ong ha già scatenato reazioni ovvie e inevitabili. Salvini ha fatto Salvini: “Sappia che l’autorizzazione allo sbarco non c’è: schiero la forza pubblica, il diritto alla difesa dei nostri confini è sacro. Chi se ne frega delle regole ne risponde, lo dico anche a quella sbruffoncella della comandante della Sea Watch che fa politica sulla pelle degli immigrati pagata non si sa da chi”.

Rackete da questo punto di vista è il “nemico” perfetto per lui: donna, idealista – buonista –, tedesca. Jackpot. Con questo nuovo episodio il leader leghista può reiterare fino allo sfinimento la sua strategia di personalizzazione del conflitto, cui si aggiunge la stoccata finale sul “pagata non si sa da chi” che tanto fa felici i boccaloni idrofobi che cercano sempre un complotto dietro ogni incrocio. Quasi non varrebbe nemmeno la pena parlarne e aspettare il giorno in cui anche gli elettori si decideranno a vedere il bluff dell’unico capitano senza meriti in questa vicenda.

Ciò che invece risulta più interessante nelle parole del vicepresidente del Consiglio è il passaggio sulle regole e sulle responsabilità, che per altro Rackete si è assunta dalla prima all’ultima e che anzi ha messo al centro di tutta la sua azione. Il fatto è che non c’è nulla di diverso che lei e il suo team potessero o dovessero fare. Hanno dialogato con Roma per settimane, nonostante i precedenti rendessero insensata ogni speranza di concludere positivamente la trattativa.

Dal caso Acquarius alla Diciotti, tutte le volte che in questi mesi una nave è stata rallentata – perché Salvini, nonostante i proclami, non può bloccare nessuno, ma solo fargli perdere tempo e qualche chilo tra le onde – dalla politica dei “porti chiusi”, è come se le persone a bordo fossero sparite. Al di là degli schiaffi che ogni tanto qualcuno si prende la briga di restituirci – come nel caso della foto scattata a un barcone carico di migranti da Massimo Sestini e oggi al centro del documentario Where are you? -, il dato umano della vicenda è stato sempre volutamente negato, eclissato da logiche elettorali e improbabili analisi sui rapporti di forza (o meglio di debolezza) con Bruxelles.

Dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto il ricorso di Sea Watch e ha deciso di non imporre al governo italiano “misure provvisorie” per sospendere il decreto Sicurezza bis che vieta l’entrata della Sea Watch 3 nelle acque italiane (pur chiedendo al governo italiano di intervenire sulle situazioni di vulnerabilità presenti sull’imbarcazione), non c’è stato più null’altro da fare. Perché Bruxelles – o in questo caso Strasburgo – non hanno meno colpe di Roma, e lo stesso discorso vale per i tanti Paesi europei che in questi anni hanno voltato lo sguardo da un’altra parte.

E allora, semplicemente, si fa quello che dice la coscienza di chi con quelle persone condivide un ponte su cui dormire da giorni. Perché non per tutti è questione di voti, sovranità nazionale o realpolitik continentale. Poi, certo, ce ne si assume le responsabilità, si pagano le multe – loro… -, e poi il sequestro della nave, gli eventuali processi. Si potrebbe tirare in ballo la solita disobbedienza civile, fare citazioni più o meno randomiche di Mandela, Ghandi o altri personaggi che nulla c’entrano, ma forse il punto è ancora più semplice. Se una legge fa schifo – e ce ne sono parecchie ultimamente che hanno questa caratteristica – non la si rispetta, e lo si rivendica.

L’esaltazione del concetto di legalità degli ultimi anni, correo il centrosinistra, ha provocato danni enormi, contribuendo all’ottusità nazionale e all’idea che il manicheismo sia un buon modo di affrontare la complessità della società e della vita. A maggior ragione bisogna chiamarsene fuori oggi, di fronte a un governo che scava ogni giorno di più il solco tra due Italie destinate a non parlarsi più e che vara un provvedimento spot dopo l’altro. La stella polare non è più il bene comune, ma solo il tentativo di compiacere e rafforzare l’idea – distorta – di mondo che ha la propria parte politica. Dire “la legge è questa e stop” in una simile situazione sarebbe una resa di cui ci malediremmo per tanto, tanto tempo.