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Sanremo 2024, quand’è che un artista è davvero «politico»?

Non ci siamo più abituati, visto il fuggi-fuggi dei grandi vecchi e il gioco a nascondino o il disinteresse dei nuovi. Così , quando capita , veniamo presi in contropiede, e la linea tra "politica" e buonsenso diventa sottilissima

Foto: Daniele Venturelli/Getty Images

I fatti sono due. Primo, che il Festival di Sanremo è un palco talmente grande e importante e seguito, o meglio è l’unico tanto grande e importante e seguito, che qualsiasi cosa succeda lì, anche la più insignificante, con addosso gli occhi di tutti entra in una sorta di butterfly effect e arriva da noi già, se non distorta, perlomeno gigante, rumorosa, scandalistica. E secondo, non siamo più abituati a trovare tracce di politica nella musica, visto il fuggi-fuggi dei grandi vecchi (ora molto più restii a prendere posizioni ideologiche rispetto al passato, i titolisti dei giornali gli hanno fatto passare la voglia, ma pure i partiti hanno perso appeal dove invece prima c’era la fila) e il gioco a nascondino, se non il disinteresse, dei nuovi. E così, quando capita, ci prendono puntualmente in contropiede: cos’è ‘sta roba, politica in una canzone? Che poi: quand’è che un artista dice qualcosa di politico e non semplicemente di buonsenso?

La faccenda di ieri è sintomatica. Dargen D’Amico con Onda alta è tra i pochi ad aver portato un pezzo su un argomento, diciamo, sociale, cioè il dramma dei migranti nel Mediterraneo. Nella prima serata, lo sapete, dopo aver cantato aveva fatto un appello a cessare il fuoco «sui bambini» di Gaza, e la frase, ha detto, gli è tornata addosso come un boomerang: ovunque ha letto la definizione «politico» (tipo: Dargen ha fatto un discorso politico) e non gli è piaciuto, così ci ha specificato che a lui la «politica» non interessa, ma che fosse solo questione di «umanità» (parolone). Ora: appurato che la realtà è più complessa di uno slogan e comunque, al di là di questo, si può dire che i ragazzini sotto i bombardamenti siano lo stesso innocenti, ergo possa essere davvero questione d’umanità, è questo tirarsi di lato a dirla lunga. Non per lui, ci sta non voler vivere di polemiche e non prendersi delle etichette, unico tra tutti. Il problema, semmai, sono le etichette stesse, emblematiche di come la parola “politica”, associata alla musica, sia subito il male. Ma non lo è.

E non solo perché, com’è ovvio, sui social nel frattempo erano partiti i meme che ritraevano grandi capi politici di destra e di sinistra, nella storia, fare i propri discorsi e specificare di non aver detto «niente di politico» – insomma, l’ovvio. Ma perché (frase vecchissima) davvero tutto è politica, anche il sociale, anche l’umano. Anche esprimersi contro la fame nel mondo è, a suo modo, politica. E per quanto riguarda canzoni e Sanremo, pure scegliere di raccontare i propri guai personali con l’integrazione, come Mahmood in Tuta gold, è politica. Anche il messaggio LGBTQ+ di BigMama – «Dedico il mio pezzo alla comunità queer. Amatevi liberamente, potete farlo» –, di questi tempi diventa politica. Cambiano solo i modi. Esprimersi su un problema reale è politica. Respirare, in un modo o in un altro, è una scelta politica. Figurarsi farlo adesso che ci sono forze politiche che minimizzano le scene che arrivano da Gaza e non si dichiarano antifasciste. Il problema è dirlo oggi, il problema è che ci si fa dei nemici, perché ok, perché ci siamo scordati che l’arte è una cosa, i comizi un’altra. Hanno proprio due funzioni diverse.

Basta pensare – altra eccezione del Festival – a Ghali, che in Casa mia ha messo una frecciatina a ciò che sta succedendo sempre a Gaza (ma, anche qui, con toni generici, tipo che la frase potrebbe estendersi a centinaia di altre guerre, del passato e del futuro) ed è stato accusato dal capo della comunità ebraica di Milano di fare «inaccettabile propaganda anti-israeliana». Propaganda, una canzone di Sanremo. Ma cosa ci guadagna? Che poi, anche qui, lo sapete com’è: intanto ci sarà pure chi pensa che Dargen D’Amico abbia preso posizione per far parlare di sé, da paraculo, mentre di là, magari legittimamente, si bastonano gli artisti che restano in silenzio. Per cui la disaffezione tra politica e musica dipende da fattori storici e di contingenza artistica, senz’altro, ma è un circolo vizioso: dovremmo deciderci su cosa vogliamo dai musicisti, perché se uno non appena deve esporsi è costretto a mettere le mani avanti, forse, c’è qualcosa che non va. E di certo non gli torna la voglia.

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