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Salvini e Meloni hanno idee diverse sull’immigrazione, ma fanno entrambe paura

Dal "blocco navale" guerrafondaio proposto da Meloni al ripristino dei decreti sicurezza sbandierato da Salvini (che, è bene ricordarlo, è ancora sotto processo per sequestro di persona nell'ambito del caso Open Arms), la certezza è soltanto una: anche questa volta finirà malissimo

Foto di Andrea Staccioli/Insidefoto/LightRocket via Getty Images

Osservando gli equilibri interni alla coalizione di centrodestra, è facile intuire che distribuire le carte non sarà un’impresa facile: le linee di frattura sono tantissime, come ad esempio il posizionamento internazionale dei due leader – se Giorgia Meloni non ha mai messo in discussione il sostegno all’Ucraina e la centralità dell’Alleanza Atlantica, Salvini si è detto contrario alle sanzioni europee nei confronti della Russia e all’invio di armi alle milizie di Kiev.

L’altra questione potenzialmente divisiva è la gestione dell’immigrazione: uno dei punti centrali delle agende politiche di Lega e Fratelli d’Italia e, storicamente, il fiore all’occhiello della loro retorica.

In relazione a questo tema, le ricette che Salvini e Meloni propongono sono diverse: mentre il segretario del Carroccio ha messo nel mirino il ripristino dei cosiddetti “decreti sicurezza” (le due note e controverse leggi approvate dal primo governo guidato da Giuseppe Conte in materia di immigrazione), anche per recuperare gli antichi fasti della sua esperienza da ministro dell’Interno durante la breve parentesi “gialloverde” (non a caso, la parentesi in cui Salvini ha registrato il più alto picco di gradimento della sua carriera, con i sondaggi che davano la Lega al 34%), la strada che la leader di Fratelli d’Italia intende percorrere è quella del “blocco navale”, che ieri ha definito come «unico modo per fermare l’immigrazione clandestina».

Ma cosa si intende per “blocco navale”? Nella declinazione meloniana, si tratterebbe di «una missione europea in accordo con le autorità libiche e nordafricane», per «difendere i confini e fermare la tratta di esseri umani verso l’Italia». Nello specifico, quindi, l’idea è quella di sottoscrivere un accordo che coinvolga l’Europa e predisporre dei controlli a tappeto tali da impedire le partenze dai porti nordafricani. In un documento che il partito ha pubblicato nel 2021 per illustrare – parzialmente – la misura, si legge che «Non si tratta di respingimenti, perché questi avvengono in mare aperto». Nella prospettiva di Meloni, peraltro, attuare il blocco sarebbe abbastanza semplice: basterebbe infatti (cito) «destinare alla Libia lo stesso importo versato dall’Unione Europea alla Turchia per controllare il flusso di migranti», ossia 3 miliardi di euro per il biennio 2015–2017 e ulteriori 3 miliardi per il biennio successivo.

Inoltre, secondo la leader di destra, la realizzazione del blocco sarebbe una specie di questione di dignità nazionale capace di rafforzare la posizione dell’Italia in Europa – anche perché, si sottolinea nel documento, «quando si è trattato di fermare la rotta balcanica come voluto dalla Germania di Angela Merkel, la UE non ha badato a spese».

Ora, nel caso in cui fosse necessario specificarlo, è chiaro che una misura del genere rischia di violare le norme internazionali, in primis la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che è piuttosto esplicita nel garantire il diritto di «lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e tornare nel proprio paese». Peraltro, l’accezione più comune del blocco navale è quella militare (non a caso, il blocco unilaterale dei porti è considerato atto di guerra dal diritto internazionale). Al netto delle violazioni, l’effettiva realizzazione di questo meccanismo sembra affetta da diverse criticità: ad esempio, quanti navi militari dovrebbe mettere a disposizione l’Italia per pattugliare qualcosa come tremila chilometri di costa nord africana? E, come ha sottolineato ieri Fratoianni, una volta individuate le imbarcazioni dirette verso le coste europee, quale dovrebbe essere il protocollo da attuare? Fermarle con ogni mezzo, magari speronandole o addirittura aprendo il fuoco? Più che una misura di contrasto all’immigrazione, questo blocco in salsa meloniana ha tutto l’aspetto di un tormentone elettorale congegnato ad hoc per solleticare la pancia del Paese, in particolare i desideri degli elettori più guerrafondai e intransigenti.

Ma passiamo a Salvini e alla sua geniale idea di ripristinare i decreti sicurezza (che, per chi avesse memoria corta, sono già stati dichiarati parzialmente incostituzionali nella parte in cui vietavano l’iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo). La volontà di rincorrere la riproposizione di due delle leggi più contestate degli ultimi anni, che tra le altre cose hanno abolito una forma di protezione essenziale come il permesso di soggiorno per motivi umanitari e assegnato nuovi poteri al ministro dell’Interno – cioè lo stesso Salvini, all’epoca –, tra cui la possibilità di vietare l’ingresso nel mare territoriale italiano alle navi che violano le leggi italiane in materia di immigrazione e la previsione di una multa salatissima per i comandanti che ignorassero questo divieto, suggerisce che il vero obiettivo del segretario leghista non sia tanto la presidenza del Consiglio: ciò a cui punta davvero è la riconquista del Viminale. Tornando a occupare il suo vecchio ruolo, Salvini è conscio di poter capitalizzare sugli eventuali inciampi di Meloni per far traballare il governo e conquistare un peso contrattuale maggiore; l’altra speranza, ovviamente, è quella di poter allargare la forbice del proprio consenso.

Del resto, l’esperienza gialloverde ci ha insegnato che, quando si tratta di immigrazione, per far presa sull’opinione pubblica è sufficiente agire sul piano della percezione: durante il primo governo Conte, l’impatto delle politiche salviniane sulla gestione dei flussi migratori è stato praticamente nullo. I rimpatri sono diminuiti nettamente, nonostante l’aumento dei fondi stanziati dall’esecutivo gialloverde, mentre Salvini ha avuto buon gioco nello sbandierare un calo degli sbarchi che, però, era dovuto non tanto ai suoi meriti, quanto piuttosto all’accordo che l’ex ministro Marco Minniti sottoscrisse con varie milizie libiche per bloccare le partenze dei migranti, mantenendoli nei centri di detenzione locali.

La parentesi di Salvini da ministro dell’Interno è stata proficua non tanto dal punto di vista dei risultati ottenuti, ma per via dell’enfasi mediatica di alcune azioni eclatanti, come ad esempio il discusso caso Open Arms – per il quale, è bene ricordarlo, il nostro è ancora sotto processo per sequestro di persona.

In tutti i casi, la certezza è soltanto una: anche questa volta finirà malissimo.

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