Restare a casa è un problema se sei vittima di violenza domestica | Rolling Stone Italia
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Restare a casa è un problema se sei vittima di violenza domestica

In Italia sono 4 milioni le donne che hanno subito violenza fisica durante la loro vita, la maggior parte di queste violenze avviene in casa, e la quarantena non fa che peggiorare la situazione

Restare a casa è un problema se sei vittima di violenza domestica

In Pictures Ltd./Corbis via Getty Images

“Sono diventata la sua valvola di sfogo quotidiano. Quando non bastano le parole, arrivano le botte”. A scrivere questa mail è Laura*: dal telefono cellulare è riuscita ad inviare una mail allo sportello di assistenza (le modalità per entrare in contatto sono tutte online, scrivendo qui o qui) per le donne che subiscono violenza, messo a disposizione dalla rete Rete di Empowerment e Auto Mutuo Aiuto (Reama), attivata da Fondazione Pangea Onlus.

Sono passate solo poche ore dall’ennesimo femminicidio in Italia. La vittima si chiama Lorena Quaranta, aveva 27 anni e lavorava come infermiera a Messina. È stata strangolata in casa, dal suo fidanzato Antonio De Pace che dopo avere chiamato la polizia ha confessato di averla uccisa perché lei gli aveva trasmesso il coronavirus. È risultato negativo ai tamponi.

Nelle ultime settimane, la rapida diffusione in tutto il mondo del nuovo coronavirus ci ha imposto di restare a casa – con restrizioni imposte dal governo italiano che limitano le nostre possibilità di uscirne – per salvaguardare la nostra salute e quella degli altri. Se da una parte è una misura assolutamente necessaria, dall’altra ha un lato negativo: espone ancora di più le donne che vivono abitualmente situazioni di violenza domestica e che oggi sono costrette tra le mura di casa con gli autori di quelle violenze, in situazioni di disagio sempre più critico, dove lo spazio personale viene drasticamente ridotto. 

A raccontare a Rolling Stone la situazione drammatica che moltissime donne stanno vivendo in queste ore è Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus e coordinatrice della rete Reama. “Laura ci ha scritto che viene svilita e insultata dalla mattina alla sera, addirittura quasi fosse lei la responsabile di questa situazione di reclusione. Lei, per lui, è diventata la sola valvola di sfogo e ogni momento è buono per denigrarla o colpevolizzarla: dalla cena mal riuscita alla casa poco in ordine o non areata a dovere”. Potersi confidare con lo sportello online di Reama è vitale, per aprirsi ma anche per ricevere informazioni su ciò che può fare per uscire dalla spirale della violenza.

“Noi consigliamo sempre alle donne di cancellare le mail, sia quelle inviate che le nostre risposta e di appuntarsi i riferimenti altrove, perché le forme di controllo in questo periodo sono ancora più accentuate”, continua Lanzoni. E molto spesso anche i figli sono costretti a diventare spettatori di urla, discussioni che finiscono con mani che si alzano e madri che scoppiano in lacrime. Come accade a Giulia*, mamma di una bimba di 5 anni, che per via delle restrizioni non può uscire, non va più a scuola, non incontra gli amici al parco. “In passato, quando mio marito diventava violento, portavo nostra figlia dalla nonna o da alcuni amici ma ora non posso tutelarla così”. È la violenza assistita. “Vedo lo sguardo di mia figlia spegnersi ogni giorno di più”, ha scritto a Reama. “Non so più come comportarmi”.

“Ci scrivono donne che hanno disturbi o allergie alimentari, considerate ‘vizi’ per alcuni mariti”, ci spiega ancora Lanzoni. “Come può essere un vizio la celiachia? Subiscono violenza economica e il marito dà loro a disposizione solo pochi soldi per fare la spesa e una lunga lista dove c’è tutto tranne la possibilità di comprare alimenti che possono mangiare. Alcune non hanno materialmente soldi per nutrirsi”.

In Italia sono 4 milioni le donne che hanno subito violenza fisica durante la loro vita. Negli ultimi 5 anni, 2,4 milioni di donne sono state picchiate, maltrattate o violentate. La maggior parte di queste violenze avviene tra le mura domestiche, dove solo nel 2019 si sono consumati l’81% dei femminicidi. Le strutture di assistenza alle vittime di violenza operative sul territorio sono 366, ma chiedere aiuto, già di per sé cosa difficile, lo diventa ancora di più in queste particolari circostanze di isolamento forzato.

Per fronteggiare questa situazione, numerose associazioni e centri anti violenza hanno attivato nuove helpline e servizi di assistenza online, e in ogni regione è disponibile il 1522 – il numero di pubblica utilità attivo 24h su 24 per il contrasto della violenza di genere. Ma non è abbastanza, perché molte strutture di assistenza sono chiuse a causa dell’emergenza coronavirus e la maggior parte delle Case Rifugio hanno finito i posti a disposizione.

“Le telefonate sono diminuite [mentre sono aumentate quelle al 112, che ha possibilità di intervento immediato]”, spiegano Fondazione Pangea Onlus, Udi e Telefono Rosa in una nota congiunta indirizzata al governo. “È opportuno chiarire e dare ulteriori informazioni perché i centri antiviolenza, che sono nella maggior parte dei casi chiusi, operano costantemente al telefono fornendo consulenza legale civile e penale e soprattutto sostegno psicologico. La consulenza legale è necessaria alle donne per avere consigli, per preparare una denuncia e per il percorso successivo da intraprendere”.

“Il coronavirus sta mettendo alla prova molte famiglie”, spiega a Rolling Stone Marco Chiesara, presidente di WeWorld, una ONG che si occupa di garantire i diritti di donne e minori. “La convivenza forzata con bambini, mariti e spesso anziani da accudire, sta aumentando in maniera esponenziale il carico familiare, che come sappiamo ancora oggi nella maggior parte delle famiglie del nostro Paese ricade quasi esclusivamente sulla componente femminile della coppia”.

Per far fronte all’emergenza, WeWorld ha attivato una nuova helpline (al numero 800.13.17.24) attiva da lunedì a venerdì (dalle 9 alle 18) e il sabato (dalle 9 alle 13). Oltre al servizio di reperibilità, verrà attivato un servizio di messaggistica e di posta elettronica per poter far accedere al progetto quante più donne possibile.