Renato Brunetta, o dell’arroganza del potere | Rolling Stone Italia
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Renato Brunetta, o dell’arroganza del potere

Durante un comizio, il ministro ha attaccato un lavoratore dipendente etichettandolo come... beh, un lavoratore dipendente. «Il microfono ce l’ho io e quindi comando io. Continua a fare il tappezziere», ha detto in un raro delirio di onnipotenza. Un chiaro esempio della distanza siderale che separa la classe dirigente dal Paese reale

Renato Brunetta, o dell’arroganza del potere

Foto di Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images

Nelle ultime ore sta circolando moltissimo un video di pochi secondi che, purtroppo, riassume al meglio la distanza siderale che separa la classe dirigente dal Paese reale, quello dei lavoratori dipendenti, delle partite IVA prive di tutele e degli stagionali che navigano a vista.

Il filmato risale allo scorso 10 giugno, e riguarda il ministro per la Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, ripreso nel corso di un comizio elettorale per le comunali in Veneto. La scena è surreale: con la sicumera tipica di chi è consapevole di occupare una posizione di potere, Brunetta ha ingaggiato un duro scontro verbale con un lavoratore accorso per ascoltarlo.

«Cosa mi chiedi?», ha incalzato il ministro al microfono. «Ah ma sei un dipendente. E cosa chiede il tuo datore di lavoro?». «Prova a chiedere a lui», ha risposto il cittadino, incassando la triste replica piccata del ministro: «Perché cazzo parli, allora?». Subito dopo, Brunetta ha alzato il livello dello scontro, provando a mortificare il suo interlocutore, un lavoratore dipendente, etichettandolo come… beh, un lavoratore dipendente. «Perché non ti metti in proprio?», gli ha chiesto per ben 4 volte. A quel punto il lavoratore avrebbe pure voluto rispondere, se solo il ministro gli avesse concesso il microfono; e invece no: «No, non parli. Il microfono ce l’ho io e quindi comando io. Continua a fare il tappezziere, dipendente», ha concluso il fautore della retorica dei “fannulloni” della pubblica amministrazione italiana.

 

In poco più di un minuto, il travaso di bile di Brunetta ha riassunto tutti i tic e i malcostumi del fare politica in salsa italiana: c’è spaccato di Paese che, puntualmente, viene dimenticato da chi governa ma che esiste e, anzi, è la parte più parte consistente dell’elettorato attivo – che poi è la contraddizione che ha concesso a orde di dilettanti allo sbaraglio di insinuarsi tra gli scranni parlamentari: il prezzo da pagare per una fiducia calata a picco. Escludere le classi medio-basse dalla propria comunicazione, addirittura stigmatizzarle, non è soltanto eticamente e moralmente condannabile: è un vero e proprio suicidio politico, perché, sorpresona, quei voti, prima o poi, se li prendono i demagoghi.

Lasciando da parte l’errore strategico, tipico di chi è scollegato totalmente dal tessuto sociale che si propone di amministrare, un ministro che utilizza il dato salariale come un insulto, impiegando il termine “tappezziere” in maniera dispregiativa e invogliando il prossimo a mettersi in proprio, beh, oltre a scadere nel classismo più volgare, non ha ben presente la realtà occupazionale del Paese che contribuisce a governare: secondo le ultime rilevazioni dell’Istat, il numero dei lavoratori dipendenti è pari a 18.063.000. Tradotto: parliamo della stragrande maggioranza della popolazione lavoratrice nostrana, quella che paga le tasse e le pensioni e che, in soldoni, permette a questo Paese di funzionare. Su Twitter ha già preso piede una campagna dominata dell’hashtag #Brunettadimettiti. Forse, però, quello più idoneo sarebbe: #Brunettaconnettitialpresente.