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Radio Radicale è l’anti-Facebook: non chiudiamo il contraddittorio

Oggi i capetti rifiutano il confronto e pontificano su social (e tv), perché il potere non ha tempo per ascoltare. La radio, invece, crea un filo diretto tra la gente e i rappresentanti e per questo cercano di zittirla

Foto: Radio Radicale

I telegiornali che ritrasmettono le dirette Facebook degli attuali capetti della politica italiana sono un segno dei tempi. Sono i tempi di un Parlamento svuotato di funzione e snaturato. E sono i tempi nei quali rischia di chiudere Radio Radicale. Non è un caso. La politica ridotta a marketing si alimenta di monologhi e risse, ma non può tollerare il contraddittorio. Nonostante la legge lo imponga, con i confronti tra proposte diverse, in realtà la campagna elettorale si svolge in altro modo: i capetti esigono di parlare da soli o di interloquire con qualche giornalista, perché così possono veicolare il messaggio preimpostato. E le tv obbediscono. È illegale, ma funziona così.

Radio Radicale è nata negli anni ’70 “piratando” le sedute parlamentari, cioè rubandole dal canale interno del Palazzo e trasmettendole nell’etere. Allora il parlamento era luogo centrale della politica, pur se già assediato dall’azione corrosiva dei partiti. Realizzare l’effettiva pubblicità delle sedute – con relativa registrazione, fatta per durare – scoraggiava il linguaggio iniziatico, la parola pronta per essere smentita. Da allora, l’emittente ha esteso la propria missione, trasmettendo i principali eventi della vita pubblica, inclusi congressi e riunioni di tutti i partiti. “Tutti” significa tutti, ostracizzati in primis: il Movimento Sociale, la Lega degli inizi, i primi comizi di Grillo.

Anche la formula del dialogo con gli ascoltatori fu impostata nel nome del contraddittorio: il filo diretto e le interviste per strada. Non come condimento del dibattito principale, o come ciliegina sulla torta di un servizio orientato che seleziona un paio di cittadini, facendoli assurgere a popolo che conferma tesi preconfezionate, ma come formula giornalistica in sé: 40 secondi per parlare, senza filtri, senza censure, con obbligo di risposta.

Il parlamento stesso oggi è divenuta una sede dove riversare i propri slogan: ridotto a un set da social, chi vi siede crede di poter fare a meno dei tempi lunghi di un ragionamento complesso. E perde la propria funzione. Perché chiarezza, brevità e immediatezza anche in politica sono un valore, ma come distillato di un processo complesso, che inizia inevitabilmente da un ascolto faticoso, da un dialogo che prende un sacco di tempo. La stessa pubblicità della parola perde valore se si tratta di messaggi da impacchettare e inviare ai propri seguaci per un consumo istantaneo, e non di parola che si forma senza troppo preoccuparsi del tempo che scorre.

Il tempo. Ecco il problema. Il potere, quasi per definizione, non ha tempo. Persino quando è in buona fede: c’è troppo da fare, da dichiarare, da decretare, da nominare, da promettere, da manovrare, da mediare. Per ascoltare, il potere ha bisogno bisogno di essere aiutato, obbligato a trovare il tempo. Quando un potente lo capisce, corre meno rischi di allontanarsi dalla realtà e di cadere vittima di se stesso.

Se Radio Radicale chiuderà, il problema non sarà semplicemente l’assenza di una voce storica d’informazione e dialogo, di un punto di osservazione della realtà. Sarà invece la natura stessa dell’oggetto osservato – il parlamento, la politica, il potere, noi stessi – a mutare. Ci sarà ancora meno tempo da “perdere”. Sarà ancora più facile perdersi.

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