Quindi alla fine il caldo non ha fermato il coronavirus | Rolling Stone Italia
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Quindi alla fine il caldo non ha fermato il coronavirus. Perché?

Mesi fa molte persone erano convinte che l'arrivo dell'estate avrebbe fatto sparire il virus, che sarebbe tornato in autunno. Ma i luoghi più colpiti negli Stati Uniti – Texas, Arizona e Florida – sono anche quelli dove fa più caldo

Quindi alla fine il caldo non ha fermato il coronavirus. Perché?

Miami Beach. CHANDAN KHANNA/AFP via Getty Images

Molti pensavano che l’estate ci avrebbe salvato. Negli Stati Uniti, l’idea era venuta dallo stesso presidente Trump, che lo scorso febbraio aveva detto, “molte persone pensano che [il virus] andrà via ad aprile, con il caldo”. Ma non era solo Trump: c’erano decine di paper scientifici che speculavano che, proprio come l’influenza, anche il coronavirus sarebbe scomparso con il calore e la luce solare estivi, e che ci saremmo potuti rilassare per qualche mese prima di una seconda ondata di infezioni, che sarebbe arrivata a fine autunno. 

Bene, ora che siamo a metà luglio, la pandemia continua a infuriare in tutto il mondo e soprattutto negli Stati Uniti, dov’è fuori controllo con oltre 3 milioni di casi e 135mila morti. Invece che indebolirsi con i primi caldi, il virus sta proliferando in alcuni luoghi particolarmente caldi d’America, come il Texas, l’Arizona e la Florida, tutti vittime di ondate di calore senzaa precedenti. Come mai sta andando così?

“È una buona domanda, a cui non sono sicuro di poter rispondere”, ha detto a Rolling Stone Peter Hotez, decano della National School of Tropical Medicine all’università di Houston, Texas, e uno dei maggiori esperti di malattie infettive degli Stati Uniti. Negli esperimenti di laboratorio, i virus tendono a soffrire la luce solare, le alte temperature e l’umidità. Gli ospedali, ad esempio, usano i raggi ultravioletti come procedura standard per uccidere i virus. E l’umidità ha un impatto su quanto a lungo le goccioline di aerosol cariche di virus rimangono sospese in aria. Lo stesso virus SARS-CoV-2 è circondato da membrane di grasso che friggono come bistecche quando la temperatura aumenta troppo. 

Ma ciò che succede in laboratorio è un conto e ciò che succede nel mondo reale è un altro. “Chiaramente non stiamo vedendo nessuna prova che la luce solare, il calore o l’umidità abbiano l’effetto di mitigare il virus”, spiega Hotez. Tanto per cominciare, la luce ultravioletta usata per uccidere i virus negli ospedali non è la stessa che ci arriva tramite i raggi solari. Poi il fatto che il coronavirus sia un nuovo virus, per il quale ancora nessuno ha sviluppato forme di immunità, rende impossibile rilevare qualsiasi anche piccolo effetto il calore, la luce solare o l’umidità possanao avere. “La teoria prevalente è che la stagionalità non sia rilevante per quanto riguarda i nuovi virus, perché infettano organismi senza immunità e si diffondono nella loro popolazione”.

Alcuni scienziati hanno suggerito che il fatto che il calore porti le persone ad assembrarsi in luoghi con l’aria condizionata possa contribuire all’aumento delle infenzioni, ma secondo Hotez anche di questo non ci sono prove.

Colin Carlson, assistente di ricerca e professore al Center for Global Health Science & Security della Georgetown University, dà una risposta parzialmetne diversa. Secondo lui il problema non è che gli scienziati stanno ancora imparando a conoscere questo virus e non hanno ancora le risposte, ma piuttosto sta nel fatto che finora hanno sbagliato, pubblicando studi affrettati e problematici che sono stati sfruttati da questo o quel politico opportunista per i suoi scopi.  “Il discorso è sfuggito di mano. Gli scienziati dicevano alla gente che d’estate sarebbe stata al sicuro. Si sbagliavano”.

Come fa notare Carlson, nei primi mesi della pandemia sono stati pubblicati un grande numero di paper scientifici scritti in tutta fretta, alcuni dei quali suggerivano che il virus si sarebbe comportato come un virus stagionale. Molti di questi paper non sono stati sottoposti a peer-review, e molti non sono stati scritti da persone con un’esperienza solida in malattie infettive. 

Uno dei paper più diffusi era intitolato “The Spread of CoV-2 Likely Constrained by Climate”, firmato da Miguel Araujo, un ricercatore dello  Spanish Research Council al Museo di Scienza Naturale di Madrid, e Babak Naimi, un geografo finlandese. I due hanno usato un modello che guardava alle nicchie ecologiche, o alla sostenibilità di un habitat, per fare un’ipotesi su dove il virus si sarebbe diffuso. “Il pattern della diffusione, lungi dall’essere casuale, è strettametne associato alle condizioni climatiche delle zone temperate e aride durante l’inverno”, scrivevano gli autori. “Il nostro modello (…) supporta l’idea che l’incidenza del virus potrebbe seguire un pattern stagionale (…) venendo in generale favorito dal freddo e venendo rallentato da condizioni climatiche estreme sia di freddo che di caldo e dall’umidità”.

Il problema, hanno scritto Carlson e diversi suoi colleghi in una lettera alla rivista Nature Ecology & Evolution in cui criticavano lo studio in questione, è che la metodologia usata dal paper non si applica al coronavirus, che si traasmette da uomo a uomo. “Un modello come questo può dire ai ricercatori dove il suolo è troppo acido per le spore del batterio dell’antrace; dove le temperature sono troppo fredde per permettere ai flavivirus della febbre dengue o dello Zika di replicarsi all’interno dei moscerini”, ha scritto Carlson. Ma un modello valido per il suolo e per l’antrace non è necessarimaente valido anche per la trasmissione di un virus da uomo a uomo. Per dirla in altri termini, il fatto che il virus dell’HIV non sia in grado di sopravvivere a temperatura sotto lo zero non vuol dire che due persone che fanno sesso in Antartide non se lo possano passare. 

Secondo Sadie Ryan, geografo medico all’università della Florida, il problema è esattamente il fatto che la scienza funziona così. “Nei primi mesi della pandemia, molti scienziati sono accorsi portando quello che avevano”, spiega. “Tiravi fuori un’idea, gli altri la sviluppavano o la rigettavano. Non era la soluzione definitiva”.

A questo punto una domanda sorge spontanea: negli Stati Uniti, dove Trump ha politicizzato ogni aspetto della pandemia, la scienza sarebbe stata in grado di fare la differenza anche se avesse avuto le risposte da subito? Se i 100 più importanti virologi del mondo fossero entrati alla Casa Bianca a marzo e avessero annunciato che l’estate non avrebbe femrato i contagi, sarebbe cambiato qualcosa?

Il fatto è che la scienza spesso si trova in guerra non solo con la politica ma anche con la natura umana. Negazionisti come Trump a parte, è probabile che molte persone avrebbero comunque pensato che l’estate avrebbe fatto finire la pandemia semplicemente per il bisogno di crederci. “Ci aggrappiamo a idee che ci daanno speranza”, dice Ryan, “e poi è difficile lasciarle andare, anche quando i dati ci dicono che dovremmo”.