Quella vecchia tentazione di rinchiudere i tossici | Rolling Stone Italia
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Quella vecchia tentazione di rinchiudere i tossici

Le recenti giovani vittime dell'eroina hanno riacceso il dibattito su prevenzione e cura. Pur nelle difficoltà abbiamo un patrimonio da non disperdere, a partire dai SerT. E tornare agli anni '80 non è la risposta

Quella vecchia tentazione di rinchiudere i tossici

Foto Getty

Non è quasi mai una cattiva notizia quando il dibattito attorno a un tema come la dipendenza da droghe si accende, e chiede di non dare più per scontati assunti considerati l’unica opzione. Se, sulla base di spinte emotive più che legittime, si rimettono però in discussione anche le poche certezze che negli anni abbiamo raggiunto, le cose si complicano.

Nelle ultime settimane se ne sta parlando e scrivendo molto, principale teatro della discussione è il Corriere della Sera, che, visto il numero di overdose in aumento negli ultimi mesi (qui i dati aggiornati), sta riservando grande spazio alla questione sulle proprie pagine e online. A contribuire a concentrare l’attenzione mediatica sulla materia anche lagiovanissima età di alcune delle vittime – da Alice Bros, morta nel bagno della stazione di Udine, a Desirée Mariottini – e la drammaticità di alcune storie divenute di dominio pubblico, come quella del padre in cerca del proprio figlio nel famigerato Bosco di Rogoredo di Milano, raccontata proprio dal quotidiano di via Solferino.

Sul giornale si sono susseguiti una serie di interventi, come quello del giornalista Antonio Polito, secondo cui l’Italia paga una serie di ritardi nel sistema di prevenzione e assistenza. Poi è stata la volta del ministro alla FamigliaLorenzo Fontana, che se l’è presa soprattutto con la modica quantità. Anche diversi operatori del settore hanno detto la loro, da San Patrignano a Giuseppe Mammana, psichiatra e presidente dell’associazione Acudipa. Nelle parole di alcuni di loro sono tornati concetti che si ritenevano superati, dall’obbligo di trattamento sanitario (in comunità) per i tossicodipendenti alla rinuncia al trattamento con farmaci “sostitutivi” all’interno dei percorsi di cura.

Che stiano tornando a spirare ventate neo-proibizioniste, come fanno notare dall’Associazione Luca Coscioni? Che si voglia mettere in discussione l’intera filiera sociosanitaria della prevenzione e del contrasto agli abusi di sostanze per come la conosciamo? Ne parliamo con Riccardo Gatti, direttore dell’area Dipendenze Asst Santi Paolo e Carlo di Milano, che gestisce 9 SerT e alcune migliaia di utenti ogni anno. «A una cosa tengo», esordisce. «Non voglio fare in alcun modo polemica con il ministro, né tanto meno con i giornali. Il problema è quando qualcuno sostiene di poter affrontare temi complicati con soluzioni un po’ semplicistiche e inadeguate».

È in corso un attacco al sistema dei SerT in Italia?
Diciamo che sento nell’aria discorsi di 30 anni fa, stranamente anche da parte di persone che hanno avuto ruoli di responsabilità in questi servizi. Quando si parla di una contrapposizione tra i SerT e le comunità, come è capitato in questi giorni, finisco per domandarmi se non ci sia dietro un secondo fine, tipo la creazione di sistemi privati alternativi.

A livello sociosanitario oggi quanto è in affanno il vostro mondo?
Siamo più fortunati che altrove, perché le emergenze del passato ci hanno permesso di costruire un sistema di intervento ambulatoriale diffuso sul territorio e di trattamenti residenziali e semi-residenziali di qualità. Ma questo sistema non era nato tanto dietro a una spinta di ambito clinico, quanto piuttosto di guerra alla droga. Era il periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, quello delle overdose e dell’HIV, e anche la politica si muoveva sull’onda di queste emergenze. In Italia, a dire il vero, è sempre stato così, si pensi alla Fini-Giovanardi che fu approvata all’interno di un pacchetto di misure dedicate alle Olimpiadi di Torino.

Sul Corriere della Sera lo psichiatra Giuseppe Mammana sostiene che il problema è che i SerT sono pieni di utenti cronici, e quindi non andrebbero bene per avvicinare e curare i giovani.
Ma la tossicodipendenza ha un coefficiente di cronicità alto per definizione. Il fatto che ci siano tante persone in cura è un fatto positivo, perché rappresenta per molti l’inizio di un percorso di uscita dai guai. Caso mai il problema è l’affollamento di alcune strutture – realtà diverse tra loro, in luoghi e contesti diversi tra loro –, e, soprattutto, le difficoltà di natura principalmente economica in cui versa tutto il sistema sanitario nazionale.

Manca personale?
In molti casi sì, come d’altra parte in quasi tutti gli ospedali. Si aggiunga il fatto che i SerT fanno un lavoro multidisciplinare: ci sono medici, psicologi, assistenti sociali, infermieri e educatori. Ogni figura professionale lavora sui casi singoli e “la squadra” si compone di volta in volta a seconda dei bisogni degli utenti. Questo perché la cura del tossicodipendente funziona quanto più è individualizzata, e per questo il problema della dotazione organica è particolarmente serio.

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Quindi smentisce che il sistema dei SerT non sia più adatto ad affrontare la questione?
I SerT sono servizi territoriali gratuiti e accessibili a tutti, che individuano percorsi in linea con le esigenze delle persone in cura. Come si fa a dire che un simile metodo non funziona?

E perché non esisterebbe una contrapposizione con le comunità di recupero?
Perché SerT e comunità lavorano da anni insieme per costruire programmi, a seconda dei bisogni degli utenti. Ci sono persone che per curarsi necessitano di distaccarsi dalla propria realtà per un periodo, altre invece no.

L’idea di un trattamento obbligatorio, ventilata da alcuni, è sbagliata?
Il trattamento per le dipendenze funziona se si sancisce un’alleanza tra il paziente e lo psicoterapeuta, perché se il percorso non è condiviso non funziona. Non è un’infezione alle vie urinarie, che passa con l’antibiotico: ci devi mettere del tuo per fare andare a buon fine le cose. Possono esistere situazioni estreme, dove ci sono percorsi obbligati, come nel caso dei minori cui un magistrato impone un trattamento. Ma parliamo di emergenze. Anche perché i percorsi terapeutici che riguardano le dipendenze sono lunghi, per cui non si possono effettuare in maniera coatta.

Vale anche per le comunità?
Soprattutto per le comunità: lì il percorso ha successo se tu accetti gli altri e la realtà in cui sei calato, e a tua volta vieni accettato. E poi andate a vedere le relazioni parlamentari in materia di droghe, e vedrete quante sono le persone che le utilizzano in Italia. Se anche solo metà dovesse fare delle cure coatte, significherebbe che dovremmo sconvolgere completamente sia il sistema della cura ambulatoriale che quello delle comunità. Che, ripeto, non nascono come luoghi di coazione, ma di scelta.

Sta anche emergendo una certa contrarietà ai trattamenti con farmaci.
Bisogna dare un’informazione corretta: metadone, naloxone e buprenorfina servono solo a chi ha dipendenze da oppiacei, negli altri casi non si usano trattamenti sostitutivi. Si parla quindi solo di una fetta dell’utenza. E il fatto che i farmaci siano utili contro la dipendenza da oppiacei, se accompagnati da un lavoro psicosociale, non l’hanno deciso i SerT, ma la letteratura scientifica.

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In questo momento, però, la letteratura scientifica non pare più una fonte.
Ma i medici devono basarsi sulla scienza, non possono scegliere i trattamenti che stanno più “simpatici” a prescindere dal fatto che facciano bene o no. Ogni trattamento, anche quelli farmacologici, ha vantaggi e svantaggi, e si cerca di lavorare in modo che i primi prevalgano. Non ci sono altre strade possibili.

I SerT non sono i “metadonifici” che alcuni dipingono?
Se lo diventano è perché una struttura è gestita male, o magari ha un organico talmente basso che non può permettersi di fare altro. Ma è una distorsione del sistema, non è il sistema. Vedo parecchi attacchi al servizio pubblico, meno proposte alternative concrete. Invito tutti a ricordarsi cosa succedeva quanto non c’erano i SerT, che sono una ricchezza da non disperdere. Allora c’era la gente che moriva per strada, e la disperazione non riceveva mai delle risposte.

Cosa ne pensa del modo in cui giornali e tv stanno trattando il tema droghe oggi?
Mi pare si cada sempre nello stesso errore, abbastanza “destrutturante”. L’abuso di sostanze è un mondo complesso, e non lo si può raccontare sempre e solo sotto forma di emergenza. Prendiamo il Bosco di Rogoredo, dove oggi ci sono quasi più giornalisti che pusher: parlare sempre e solo di quel posto dà una fotografia parziale del fenomeno. Poi è chiaro che quando ti trovi di fronte alla storia di un padre che vede il proprio figlio perdersi ogni giorno lì dentro e deteriorarsi sempre più, pensare “rinchiudetelo da qualche parte in modo che stia lontano da quella roba” è la cosa più normale e umana che ci sia. Sono storie vere, e tremende. Ma, purtroppo, quella non è soluzione. Il nostro compito è dare risposte appetibili, che spingano le persone a credere di poter cambiare vita. Non in modo forzoso, se no la vita non la cambi.

Quanto ci deve preoccupare davvero il ritorno massiccio di certe droghe nelle nostre piazze?
Sicuramente è in corso un tentativo di aggancio dei minori da parte del mercato, tramite la vendita di sostanza a bassissimo costo e facili da reperire. Il rischio che si venga a creare una nuova generazione di eroinomani è concreto. Senza mai dimenticare, però, che la stragrande maggioranza dei giovani (e non solo) che si rovinano la vita lo fanno con l’alcool, e che il fumo di tabacco rimane la prima causa di morte. Eppure quasi tutto il sistema dell’intervento e della cura è incentrato sulle droghe illecite, la cui diffusione rimane molto ridotta rispetto a quelle lecite.

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