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Quarantena prima degli esami

Mentre il governo cancella le bocciature e affida la maturità al virus, la scuola italiana si è ritrovata in una prova generale di progresso: aule digitali anarchiche, professori-youtuber e lezioni come uno sparatutto online

Quarantena prima degli esami

Foto: Jacopo Landi/NurPhoto via Getty Images

Si dice spesso che l’anno della maturità non si scorda mai. Il che non è mai stato così vero come nel 2020.

Il Governo Conte II sembra aver risolto i suoi dubbi su come regolare esami di Stato e promozioni ai tempi della pandemia, decidendo di far decidere al Coronavirus. Se si potrà tornare in classe prima del 18 maggio, è prevista una maturità light, con la commissione tutta interna (salvo il Presidente) che scriverà di suo pugno la traccia della seconda prova. Se le scuole riaprissero dopo il 18 maggio o, com’è più probabile, a settembre, si farebbe solo un colloquio, in tempi e modi da stabilire, e il voto finale sarebbe determinato per 60 punti dalla prova orale e per i restanti 40 dal rendimento pre-virus.

Quel che è certo è che alla maturità o al prossimo anno scolastico si arriverà 1) comunque ammessi 2) dopo una demo giocabile della scuola virtuale italiana.

La palla ora, come del resto era prima del decreto di ieri, sta ai presidi, agli insegnanti, ai genitori e, soprattuto, agli studenti. In altre parole, all’atto più estremo di autogestione della storia della nostra scuola.

I possibilisti sostengono, possibilisticamente: l’importante è partecipare. Gli scettici, rosicando — vuoi perché non hanno dormito la notte per autoprodurre dei webinar; vuoi perché, da scettici, hanno solo rosicato — ribattono: no all’amnistia ai somari, aggiungendo che la scuola non può e non deve essere ridotta a experience (categoria del marketing che indica il buco col prodotto intorno), per giunta digitale; deve essere vera scuola (almeno finché quarantena non ci separi).

Eppure non tutto il relativismo didattico viene per nuocere. Un po’ come nella vecchia parodia della Scuola di Paolo Virzì, si comincia col piangere la morte dell’insegnamento o col gridare alla rivoluzione. Solo dopo ci si accorge che più del risultato conta la percorrenza. Guarda caso, anche quando non è perfettamente delineata da un Ministero.

È un dato di fatto che i nostri docenti non sono apparsi disinvolti davanti alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. L’impressione è che fare scuola digitale in modo — se non sistematico — almeno non anarchista-individualista, sia un po’ come provare a far volare un aeroplano ultraleggero mentre lo state montando, senza istruzioni e senza neppure una brugola Ikea a bordo. Cambiare non è mai facile, figuriamoci quando non c’è solo il consueto ministro che ti costringe a farlo, ma anche una malattia respiratoria acuta.

La scuola a distanza di sicurezza ha sovvertito, in un tap di touchscreen, gran parte dei cliché e dei rapporti di forza vigenti nella scuola tradizionale. Ci sono discoli che si chiudono nel cappuccio della felpa e timidi cronici che vanno volontari in WiFi o scorciatoie di tastiera. La vera classe capovolta, da un paio di settimane, non è più quella con lo studio in classe e le lezioni a casa, ma quella con gli alunni che impartiscono lezioni di sfondi virtuali di Zoom ai prof, prima di fare l’appello. C’è perfino chi ha creato sfondi virtuali con la sua foto mentre è su Zoom, ispirato dalla scena della Casa di Carta 4 nel parcheggio del tribunale, anch’egli per eludere la videosorveglianza.

Pure tra i professori i ruoli sono in parte rovesciati: non sempre i più autorevoli e temuti sono anche i più flessibili e adattabili alle forme di improvvisazione teatrale demandate dall’e-learning. Viceversa, è possibile che un docente non propriamente riverito in sala professori stia conoscendo un momento di gloria insperato, ponendo le basi per una rivalutazione di sé e della sua materia che un giorno potrebbe valicare le porte di casa, una volta dissigillate.

In un’epoca in cui amiamo più polarizzarci che capirci, non ci potevano che essere due partiti per la scuola virtuale: sincrona contro asincrona.
Molti presidi non hanno resistito alla fascinazione pragmatica dell’asincrono. Il team asincrono ha come caposaldo il registro elettronico e la sua nuova, avveniristica estensione Collabora (manda link alla classe). Si rinuncia un po’ all’interazione, sì; ma anche all’imprevisto e si guadagna in efficienza e standardizzazione. Le lezioni sono rese disponibili agli allievi per essere viste e riviste fino a impararle. I prof diventano come degli youtuber alle prime armi, con pochi follower ma tanto da dire, Italo Svevo al posto del make up e l’Illuminismo invece di un walkthrough di Halo Infinite. L’obiettivo di questi screecast, non sempre raggiunto, è quello di porre più distanza possibile tra sé e l’estetica del Consorzio Nettuno.

Altri presidi, più spericolati, hanno adottato la magia del sincrono, di cui il campione tecnologico è Zoom. Onore ai docenti digitali sincroni, assoldati dai loro presidi per una guerra al tempo libero degli allievi. In effetti questi prof sono un po’ come dei soldati in piena sindrome di Catch-22: invocano l’infermità mentale, certo; ma siccome nessun docente insano di mente potrebbe chiedere di essere esentato dall’usare un’app per fare lezione a 25 allievi simultaneamente, allora niente, devono continuare a bombardare. C’è una finestra per ogni allievo presente, ciascuno con la sua dimensione domestica e familiare alle spalle, e il suo mondo nella testa. Un tasto muto per domarli; un tasto no video per ghermirli e nel buio incatenarli.

Il fatto è che, già in tempo di pace, un’aula scolastica contemporanea somiglia parecchio a una sessione di guardie e ladri. In tempo di Coronavirus, una volta digitalizzata, la classe è diventata un videogioco sparatutto, multiplayer e in streaming. Il gameplay prevede che sia il professore a controllare la navicella della situazione e gli alunni, compattamente schierati contro di lui, come Space Invaders da fronteggiare e a cui sparare un concetto, una data, un collegamento ipertestuale. Un gioco col boss finale più implacabile di sempre: la soglia dell’attenzione umana diciassettenne.

Si potrebbe scrivere un Io speriamo che mi ci connetto con l’aneddotica della scuola digitale sincrona ai suoi primi vagiti, sia dal punto di vista degli allievi che da quello opposto. Va fortissima la pratica dello zoombombing, cioè imbucarsi in una videoconferenza altrui, magari per vedere una fidanzata che ha la webcam occupata, con la scusa pronta: “Sono cultore della materia”. Prof che vanno in bagno con tablet, convinti di aver disattivato camera e microfono, per ritrovarsi con la classe che gli chiede se sono sicuri di aver tirato lo sciacquone. Alcune lezioni sincrone sono così appassionanti che gli allievi che hanno perso l’ultima puntata vivono col terrore degli spoiler, fino a che non la recuperano on demand grazie alla scheda di acquisizione video del compagno gamer o cinefilo.

Se il team sincrono rischia di essere appassionato ma perdigiorno, quello asincrono è un terno secco giocato sulla ruota del senso di responsabilità degli allievi o dei loro fratelli maggiori, mentre i genitori sono giustamente alle prese con lo smart working, PornHub Premium o il sito dell’Inps.
La verità è che una ricetta non c’è ancora. Le cose che possono andare storte sono troppe. Così come quelle che sarebbero potute andare bene, se solo le avessimo provate. I realisti, cioè gli studenti non in odore di alfierato del lavoro e gli insegnanti con accesso al gruppo Whatsapp degli studenti, pensano che, tutto sommato, forse è affascinante essere vivi nella congiuntura storica in cui, più che mai, i docenti sembrano livellati con i discenti: entrambi non sanno assolutamente che pesci pigliare. E non dispiace che ciascuno a lezione si porti dietro una parte di sé, quando non anche del proprio cucinotto o della propria madre che inveisce contro il cane.

Cari scolari, l’importante è che non vi facciate ingannare da chi vi dirà che la vostra maturità o la vostra promozione non contino quanto la loro. Né, del resto, vi lasciate esaltare da chi vi porta in gloria solo perché, rinunciando a un’ora di Fortnite per risolvere un’equazione sull’iPad, vi state immolando per la Patria. Se ne uscirete, come tutto sommato abbiamo motivo di credere, oltre che promossi, anche sani e salvi, non avrete fatto altro che una delle cose più facili e difficili al mondo, che hanno fatto milioni di maturandi prima di voi e tantissimi ancora faranno dopo di voi: crescere di qualche mese mentre il mondo intorno diventa più piccolo e più comprensibile, e più diventa comprensibile, più vi fa male.

Questa costrizione a passare le giornate in videoconferenza, come project manager anzitempo, non solo è una delle forme più tristemente verosimili di alternanza scuola-lavoro che avreste mai potuto fare. Ciò che si preannuncia la chiusa per studio più lunga di sempre — e, tutto sommato, non la più faticosa — è certamente quella più importante della vostra vita. Va bene: nessuno è perfetto, nessuno è bocciato. Non è una novità che l’indulgenza plenaria se la godano di più i peccatori.

Ma da questa storia potrete imparare (oltre che, si spera, qualcosa dei programmi del secondo quadrimestre) le stesse cose che dovremmo imparare noialtri dai delfini nel Canal Grande pulito. Consideratela una prova generale di progresso in calcio d’angolo, fatta tutto sommato mentre siamo ancora in tempo per sperimentare e sorridere (quando non piangiamo, sia chiaro). Sarà una quarantena prima degli esami, un lunghissimo buffering della vita normale, ma il risultato non cambia: questa notte è ancora vostra.